BLP
2025/17
Diritto comparato e interdisciplinarietà: tra innata vocazione e incompiuta realizzazione?*
1. Premessa
Da tempo il graduale quanto inesorabile passaggio da una «predominantly monodisciplinary (doctrinal) tradition»[1] a una crescente esigenza per l’indagine interdisciplinare, spesso abbinata all’attenzione per la ricerca empirica, sembra marcare l’inclinazione, o almeno l’aspirazione, delle scienze giuridiche.[2] Vieppiù, l’interesse per gli altri saperi è una delle principali «pressing questions with respect to the role of methodology in law»,[3] al punto che la dottrina c.d. di mainstream ritiene non solo importante, bensì essenziale, il ricorso alle acquisizioni di altre discipline per lo studio del diritto, in generale, e di quello comparato, in particolare.[4] A tal riguardo, e in termini emblematici, Jaakko Husa afferma che: «according to an almost paradigmatic assumption, comparative law is assumed to be, by its very nature, necessarily and genuinely interdisciplinary».[5] L’asserzione del comparatista finlandese fa, del resto, eco all’opinione ormai diffusa che dà per scontata la natura interdisciplinare del diritto comparato.
Eppure, sviluppare una compiuta riflessione sul ruolo dell’interdisciplinarietà nel diritto comparato risulta tutt’altro che semplice. I nodi problematici iniziano già sul piano strettamente definitorio, poiché non risulta immediatamente chiaro cosa si intenda per interdisciplinarietà. Va, infatti, rilevato che, di frequente, l’interazione tra le diverse discipline viene resa da alcuni studiosi, soprattutto stranieri, in senso indistinto, con i termini “multidisciplinarietà” e/o “interdisciplinarietà”, che però non sono due categorie completamente sovrapponibili. L’approccio multidisciplinare comporta una spiccata autonomia delle diverse scienze applicate ad un medesimo ambito di ricerca, giacché ciascuna di esse ricorre alla propria metodologia per rispondere all’originaria domanda di ricerca e l’indagine sfocia in outcomes strettamente dipendenti dal settore disciplinare di riferimento.[6] Diversamente, il metodo propriamente interdisciplinare rifugge dalla mera giustapposizione dei diversi saperi per aspirare ad un compiuto confronto,[7] se non ad una vera e propria cooperazione,[8] tra le diverse conoscenze (giuridiche, storiche, sociologiche, linguistiche ecc.). Su questa linea di ragionamento, la multidisciplinarietà sembrerebbe allora offrire un livello minore, ossia limitato, se non addirittura solo apparente, di interazione fra discipline impiegate nello studio di un determinato ambito di ricerca.
Non di rado, negli scritti dedicati al tema, si ritrovano altresì le nozioni di cross-disciplinarity, transdisciplinarity[9] e borrowing. Secondo il primo approccio, lo studio di una data questione, pertinente a una data disciplina, viene affrontato dalla prospettiva di una disciplina diversa (appunto altra) rispetto a quella di origine[10]. La seconda espressione si usa allorquando le scienze applicate per risolvere un dato problema riescono a raggiungere un livello di collaborazione (rectius, commistione) tale da creare uno «space of knowledge beyond the disciplines».[11] In parole più chiare, la transdisciplinarity condurrebbe ad una sorta di “meta-scienza”. Infine, il borrowing implica il ricorso a teorie o concetti propri di una scienza diversa da quella a cui è riconducibile l’iniziale domanda di ricerca, alla quale resta peraltro sotteso il problema che lo studioso è chiamato a risolvere[12].
Orbene, queste categorie classificatorie non sono granitiche, ma si confondono nell’uso proposto dalle diverse analisi o, comunque, confluiscono in tassonomie che parzialmente possono anche sovrapporsi. A tal proposito, benché non si focalizzi sulle scienze giuscomparatistiche, ma prenda in esame, in termini più generali, quelle giuridiche, preme richiamare la classificazione proposta da Sanne Taekema e Bart van Klink, che si articola in ben cinque livelli. Nello specifico, si fanno emergere le opzioni euristica, ausiliaria, comparativa, prospettivista e integrata.[13] Di queste le prime tre ammettono un dialogo piuttosto limitato tra le diverse scienze o al più curvato su una china strettamente funzionale a quella giuridica; perciò, sono ricondotte dagli stessi Autori ad un’accezione lata di interdisciplinarietà e, anzi, risultano assimilabili alla nozione che si è data di multidisciplinarietà. Più nello specifico, i primi due livelli (quello euristico e quello ausiliario) sembrerebbero sovrapporsi allo schema del c.d. borrowing; mentre il quarto e il quinto livello (rispettivamente prospettivista e integrato), nell’implicare una compenetrazione più spinta fra il diritto e le altre scienze, potrebbero invece ricondursi all’idea di interdisciplinarietà in senso stretto.
Altre classificazioni preferiscono passaggi sfumati ai tagli netti. Ad esempio, secondo Mathias M. Siems[14], la ricerca interdisciplinare nel campo del diritto può declinarsi in basic o advanced. La prima si caratterizza per l’utilizzo di domande di ricerca di carattere giuridico che, per trovare un’appropriata risposta, necessitano delle acquisizioni proprie di altre discipline. Il livello basic pare quindi inglobare i primi due livelli di interdisciplinarietà (o invero di multidisciplinarietà) individuati da Taekema e van Klink. L’advanced interdisciplinary research si articola, poi, in almeno tre diversi tipi; più in dettaglio, secondo la prima declinazione, la ricerca si sviluppa attorno a domande che non hanno carattere giuridico, ma che vengono affrontate con metodi propri anche della scienza giuridica. Di qui un’attitudine di ricerca interdisciplinare che potrebbe inglobare l’approccio “prospettivista” della tassonomia proposta da Taekema e van Klink.[15] La seconda possibilità di indagine presuppone domande di natura giuridica, a cui si tenta di rispondere applicando al ragionamento giuridico il metodo proprio di altre scienze, in particolare di quelle empiriche. Ancora più avanzata in termini di interdisciplinarietà è poi la terza ipotesi, che si sforza di rispondere a domande di taglio non giuridico tendendo ad integrare nel ragionamento giuridico i metodi di altre discipline. Questa terza dimensione combina quindi le prime due, giacché mutua dal primo tipo la non giuridicità delle domande di ricerca e, in parallelo, dal secondo il metodo da applicare nell’indagine. Pertanto, dallo scambio o dalla diversa combinazione degli elementi definitori deriva l’eventuale sovrapposizione degli approcci di indagine.
A conferma dell’ampiezza e delle variegate possibilità di sovrapposizione delle dimensioni definitorie, si può, infine, notare che Rob van Gestel, Hans-W. Micklitz e Miguel Poiares Maduro accostano, benché senza fornirne una puntuale definizione, l’attitudine multidisciplinare alla ricerca empirica,[16] il che parrebbe, implicitamente, rimandare alla advanced interdisciplinary research dei lavori di Siems.
Senza pretesa di esaustività, i richiamati sforzi definitori riflettono l’ormai imprescindibile, almeno in via di principio, interrelazione tra conoscenze diverse, anche non prettamente giuridiche, che devono però essere necessariamente compresenti per risolvere le contingenze che la collettività incontra nella quotidianità. In altri termini, per affrontare proficuamente i complessi problemi del vivere, non solo si devono esplorare inedite frontiere, ma altresì seguire metodi funzionali alla soluzione di domande di ricerca integrate, cioè sintonizzate su composite “frequenze” pluridisciplinari, imposte da una visione ormai globale.
Per tornare al focus del discorso, che si vuole centrare sul diritto comparato, e in modo particolare su quello pubblico, risulta allora chiaro il paradosso che, ormai da tempo, lo caratterizza: da un lato, è data per acquisita, quantomeno nell’opinione comune, la sua natura interdisciplinare (v. par. 2); dall’altro lato, sembra però evidente la problematicità del pieno sviluppo o, se si preferisce, dell’effettiva realizzazione (rectius, materializzazione) di tale innata attitudine (v. par. 3).
2. L’indole interdisciplinare del diritto comparato
La prima asserzione del paradosso evidenziato in Premessa è centrata sulla ormai, si è detto, scontata intonazione interdisciplinare del diritto comparato, declinata dalla semplice aspirazione alla (addirittura) genetica attitudine.
A supporto di tale affermazione sembra comunque utile una rapida rassegna della più recente manualistica di interesse. Nel suo recente volume,[17] Uwe Kischel pone particolare attenzione al tema dell’interdisciplinarietà, al punto da dedicarvi una sezione ad hoc, Comparative Law and Other Disciplines. La seconda parte del lavoro collettaneo curato da Mathias Reimann e Reinhard Zimmermann riserva vari capitoli agli approcci interdisciplinari del diritto comparato.[18] Nel medesimo manuale, Ralf Michaels[19] afferma, da un lato, la naturalezza del rapporto tra diritto comparato e metodo interdisciplinare e, dall’altro, la funzionalità, per lo studio del diritto, del ricorso ad altre discipline, altre giacché estranee al giurista; tra queste spiccano la sociologia, l’antropologia, la filosofia e la teoria politica. Mathias M. Siems – Autore richiamato nella Premessa di questo articolo – si preoccupa, già dal capitolo introduttivo del suo studio sulla comparazione giuridica,[20] di suggerire il metodo dell’interdisciplinarietà.
L’approdo naturale all’interdisciplinarietà degli studi giuridici comparatistici è pure sottolineato da Günter Frankenberg;[21] lo studioso tedesco enfatizza che il «comparative law […] offers the perfect platform and is a “natural” for border-crossing travels not only to other countries, systems and laws but also to other disciplines such as history, philosophy, anthropology and political studies […]». La natura interdisciplinare del diritto comparato è poi evocata da Mary A. Glendon, Paolo C. Carozza, Colin B. Picker.[22]
Ancora in termini più espliciti, già nel 2013, Mathias Reimann sostiene che una seria riflessione sul diritto comparato, persino di mero carattere manualistico, non sembra più poter prescindere dal riferirsi alle sue neighbouring disciplines[23]. In parole più chiare, quest’Autore afferma che guardare il diritto comparato in relazione ad altre discipline aiuta a comprenderlo, almeno da due prospettive: da un lato, la distinzione rispetto alle altre discipline chiarisce cosa sia il diritto comparato e, parallelamente, la relazione con diverse scienze (cioè, altre rispetto al diritto) rivela l’interazione del diritto comparato con le stesse. In pratica, secondo questa lettura, grazie alla contaminazione portata dall’interdisciplinarietà si innesca una proficua dinamica di interscambio, da cui origina un altrettanto utile rapporto di do ut des tra il diritto e gli altri saperi. Franz Werro[24], in termini espliciti, lancia la “chiamata all’interdisciplinarietà” nell’affermare che: «[u]nderstanding the law of other should be an investigation into the forces that justify its existence from within»; ebbene, le forces alle quali lo studioso in parola si riferisce sono la storia, la politica, la letteratura, l’economia e le discipline altre (rispetto al diritto) che consentono di cogliere quello che Pierre Legrand, nel richiamare Jacques Derrida, definisce «spectral structure»[25] dei testi giuridici. Pertanto, nel ragionamento proposto, la “chiamata” all’interdisciplinarietà è un mezzo non solo utile, ma indispensabile, giacché essenziale alla comprensione (intesa come attribuzione di significato) dei testi giuridici. La pluralità e, implicitamente, la complementarietà delle varie aree disciplinari, diverse dal diritto (quali, tra le altre, la teoria politica, la scienza politica e la filosofia) è assai valorizzata dall’approccio metodologico del volume curato da Michel Rosenfeld e András Sajó.[26] Tra i diversi contributi, quello firmato da Peer Zumbansen colloca «[a]t the heart of comparing legal cultures … an unavoidably interdisciplinary study of legal and non-legal norms, routines and social practices», così rimarcando l’imprescindibilità dell’interdisciplinarità come metodo della comparazione.[27] Sulla medesima linea di pensiero, Rosalind Dixon e Tom Ginsburg[28] affermano che «[n]ever before the field [of comparative constitutional law] had such a broad range of interdisciplinary interest, with lawyers, political scientists, sociologists and even economists making contributions to our collective understanding of how constitutions are formed and how they operate».[29]
Infine, sul limitrofo versante del diritto amministrativo, Andreas Voßkuhle e Thomas Wischmeyer, nel volume a cura di Susan Rose-Ackerman, Henry R. Luce, Peter L. Lindseth e Blake Emerson, dedicano ampio spazio al tema dell’interdisciplinarietà. Specificamente, nel rivendicare l’importanza del metodo interdisciplinare dell’indagine, arrivano persino a negare l’autonomia[30] dell’administrative law e precisano che «it can neither be adequately explained nor applied if it is isolated from the context for which is designed», sicché «[…] legal scholars take interdisciplinary insights into account for examples from political theory, systems theory or new institutional economics».[31]
Spostando l’angolo di osservazione sul piano nazionale, va sottolineata l’attenzione che gli studiosi italiani, ormai da tempo, dedicano alla dimensione interdisciplinare. Basti menzionare Rodolfo Sacco, considerato dall’accademia internazionale un perno per la comparazione strutturale sviluppata attraverso la teoria dei formanti (verbalizzati o meno) già nella prima metà degli anni Settanta.[32] L’analisi strutturale del diritto di Sacco, per dirla con le parole di Vittorio Denti,[33] si intreccia con la filogenesi storica, proposta da Gino Gorla, che, qualche anno più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, nel rimarcare le innegabili interazioni tra diritto e storia, arriva a teorizzare che «la comparazione, quale metodo, non è che storia»;[34] anzi, spiega che i rapporti tra le due scienze sono «più che interdisciplinari, di integrazione o complementarietà».[35]
Tra i pubblicisti, l’interesse per la storia risulta spiccato nei lavori di Giovanni Bognetti, che, sin dalla prima edizione di Diritto costituzionale comparato, curato da Paolo Carrozza, Alfonso Di Giovine e Giuseppe F. Ferrari, nel capitolo dedicato a Oggetto e metodo della comparazione, enfatizza il multiforme ruolo del giurista comparatista, chiamato ad operare come uno storico, giacché la sua ricerca mira «ad accertare aspetti di fenomeni sociali da cogliere nella loro obiettività fattuale».[36]
Ancora, senza nessuna pretesa di completezza, ma solo nell’intento di rimarcare l’attenzione riservata all’interdisciplinarietà dai giuspubblicisti, tra i manuali più recenti, va segnalato quello a cura di Giuseppe Morbidelli, Mauro Volpi e Ginevra Cerrina Feroni,[37] il cui capitolo introduttivo dedica un paragrafo a Comparazione e scienze non giuridiche.[38] Qui, il diritto comparato viene rappresentato, in modo assai evocativo, come una scienza che partecipa ad un «gioco di squadra» con altre discipline; tra queste un’esplicita menzione è fatta alla storia, alla scienza politica, alla sociologia giuridica e all’antropologia giuridica.[39]
Tre anni prima, Lucio Pegoraro e Angelo Rinella dedicano un paragrafo del primo capitolo del loro studio sui sistemi giuridici a quelle scienze che si pongono «oltre il diritto»,[40] rimarcando il ruolo chiave di discipline diverse da quelle giuridiche. In senso analogo, il capitolo introduttivo del manuale firmato da Giuseppe Morbidelli, Lucio Pegoraro, Angelo Rinella e Mauro Volpi riserva ampio spazio all’utilizzo di discipline altre rispetto al diritto.[41] In particolare, nell’individuare il punto di partenza della ricerca comparata nell’uso strumentale delle scienze diverse da quelle giuridiche, ma appunto al servizio di queste,[42] si sottolinea la necessaria interazione degli studi comparatistici con la linguistica, la storia, le scienze politiche, la storia delle dottrine politiche, la sociologia, l’antropologia, l’etnologia, l’economia, la geografia, la statistica, la matematica, e persino le scienze della natura.
La scelta di agganciare l’indagine comparativa ad una pluralità di approcci, che spaziano appunto da quelli classici, come le dimensioni storica e/o sociologica, a quelli più inediti o, comunque, meno tradizionali, viene letta in termini funzionali (rectius, serventi) anche da Paolo Ridola. Più nello specifico, nel focalizzare il discorso sul rapporto tra diritto e cultura, questo Autore, da un lato, mette in guardia il lettore dal pensare all’interdisciplinarietà come un «mero complemento», utile, anzi forse essenziale, al metodo comparativo, però «fine a se stessa», dall’altro, esorta all’uso funzionale del metodo interdisciplinare, orientato a «cogliere, dietro la facciata della positività del diritto, gli strati storici ed antropologici», dunque, determinanti per «una corretta comprensione della positività stessa».[43] La valorizzazione dell’interdisciplinarità in chiave funzionale porta quindi Paolo Ridola a collocare «la comparazione direttamente sul terreno ermeneutico».[44]
In un’ottica più specifica, centrata sul rapporto tra il diritto e la traduzione, pure Roberto Scarciglia non manca di sottolineare che, al fine di «penetrare gli strati più profondi e cognitivi degli ordinamenti», è necessaria non solo la padronanza linguistica, ma anche «un legame profondo con la cultura, la storia e le tradizioni del Paese oggetto di studio e una analisi comparativa anche trasversale».[45]
Ancora prima di “catturare” l’area comparatistica giuspubblicistica, l’approccio interdisciplinare ha appassionato gli studiosi privato-comparatisti. Come si è anticipato, il punto di riferimento è Rodolfo Sacco, che ha riservato grandissima attenzione alle scienze diverse. Ad esempio, già dalle prime edizioni di Introduzione al diritto comparato, il Maestro apre la prospettiva di indagine a La comparazione giuridica al servizio delle scienze sociali e afferma che «il metodo comparatistico […] parla il linguaggio di tutte le scienze rivolte al fatto»; in quest’ottica, sottolinea poi la capacità delle scienze comparatistiche di rendere «servigi» alle scienze «vicine al diritto»,[46] così da prospettare una visione strumentale del diritto comparato rispetto ad altre scienze. Tra queste ultime, risulta evidente l’interesse di Sacco per la storia,[47] nonché per l’antropologia o, meglio, per il dialogo tra comparazione e antropologia.[48] Questa idea si ritrova anche nel 2007 laddove Rodolfo Sacco presenta l’antropologia come scienza con cui il giurista deve avere dimestichezza al fine di comprendere le forme non verbalizzate del diritto.[49] Nel 2015 il medesimo Autore allarga ulteriormente il raggio interdisciplinare dell’indagine ed evidenzia il contributo cognitivo non solo dell’antropologia, della storia e della filosofia, ma finanche delle neuroscienze e dell’etologia alla ricerca comparatistica.[50]
Sempre senza alcun intento esaustivo, ma solo per dare un’idea dell’attenzione riservata dai privato-comparatisti all’approccio interdisciplinare, vanno indubbiamente richiamati gli approfonditi studi di Pier Giuseppe Monateri, che combinano spesso l’attenzione per l’antropologia giuridica con quella per le scienze economiche e per la loro interazione con il diritto. A tal proposito, va richiamata la seconda parte dell’Introduzione breve al diritto comparato[51] di Pier Giuseppe Monateri e Ugo Mattei, tutta centrata su Comparazione e ricerca interdisciplinare e articolata in due capitoli: uno focalizzato sulla Comparazione e analisi economica del diritto e l’altro sulla Comparazione e antropologia giuridica.
L’importanza degli studi antropologici è pure rimarcata da Michele Graziadei,[52] allorquando, nell’affrontare il rapporto fra diritto e società dalla prospettiva del legal transplant ovvero nell’indagare il ruolo che la società e la cultura giocano nella dinamica dei transplants, sottolinea la comunanza di interessi con «anthropologists and sociologists investigating law».[53]
Particolare interesse nel settore privatistico è poi stato riservato alle interazioni tra la comparazione e la linguistica/traduzione; su questo versante basti richiamare, nelle varie edizioni, le analisi di Rodolfo Sacco e Antonio Gambaro.[54]
Un’apertura all’interdisciplinarietà si ritrova nell’affermazione di Alessandro Somma, secondo cui bisogna «attrezzarsi per il confronto con i saperi alla base delle ingegnerie sociali ora di moda».[55] La necessità, per il comparatista, di «embarking in interdisciplinary research», lasciando da parte le «pointilliste investigations», è infine rimarcata da Vincenzo Zeno Zencovich.[56]
I significativi esempi richiamati rivelano la tendenza, invero ormai consolidata e ampiamente dimostrata dalla manualistica della comparazione giuridica, tanto privatistica quanto pubblicistica, a presentare l’interdisciplinarietà non più come mera aspirazione, bensì quale consapevole metodo di indagine dal quale il comparatista sembra non poter prescindere nel suo percorso di ricerca. Anzi, gli accenti più spinti sul terreno della comparazione interdisciplinare suggeriscono di riconsiderare il ruolo del comparatista proprio in ragione del metodo. Emblematico, in tal senso, il pensiero di Pier Giuseppe Monateri, che valorizza «the fruitful encounter with the Humanities to construct a powerful interdisciplinary approach (or better an interdisciplinary methodology)»;[57] il comparatista viene cioè chiamato a «new projects of cultural governance in the context of globalization»,[58] performance che sembra delineare, nella linea di pensiero di Monateri, un’inedita dimensione dello studioso, inserito in un ordine giuridico globale e impegnato nello sfidante sforzo di sintesi tra le acquisizioni delle discipline altre e il diritto.
3. L’incompiuto sviluppo dell’inclinazione naturale
A distanza di oltre un secolo dall’essersi organizzato come scienza,[59] e dopo lunghi decenni di inesorabile transizione verso un crescente (e sempre più consapevole) interesse per gli altri saperi, il diritto comparato non sembra però avere ancora portato a compimento l’accidentato percorso verso la piena interdisciplinarietà (almeno nella versione più avanzata definita in Premessa). Non si può, infatti, negare che la gran parte dei contributi della comparatistica occidentale, soprattutto europea, proponga ancora un’impostazione sostanzialmente monista e dallo spiccato carattere dottrinale. Paradigmaticamente, a tal riguardo, Husa, facendo eco a Tushnet, constata che «much of comparative law research is quite doctrinal, and even such seemingly natural allies as legal history or sociology of law have not in fact been extensively used».[60]
Questa disincantata considerazione ripropone allora il paradosso con cui si è chiusa la Premessa di questo studio. L’asserzione (teorica) dell’intrinseca, anzi genetica, inclinazione interdisciplinare del diritto comparato – diffusamente rilevata e valorizzata dalla più recente manualistica e, più in generale, dalle opere di settore (v. par. 2) – si scontra con la cruda realtà del quotidiano esercizio pratico, dove invece emerge un’applicazione del metodo interdisciplinare, inteso in senso lato, quindi più vicino all’attitudine multidisciplinare.
In questo paragrafo si vogliono indagare le ragioni che hanno ostacolato il pieno e compiuto sviluppo dell’innata vocazione interdisciplinare del diritto comparato.
Le difficoltà che il comparatista incontra e i rischi che deve affrontare nello sfidante percorso interdisciplinare di ricerca non sono né pochi né trascurabili.[61] Invero, spesso sono le difficoltà a rappresentare i rischi che il comparatista deve inevitabilmente correre, il che rende la sfida raccolta dallo studioso ancora più impegnativa e spiega, mutuando le parole di Marie-Claire Ponthoreau, la ragione per cui «tous les comparatistes ne sont certes pas convertis à l’interdisciplinarité».[62]
Un approccio interdisciplinare avanzato, prescindendo per un momento dalla prospettiva del giurista, comparatista o meno, porrebbe, in via preliminare, il problema della formulazione della domanda di ricerca, da cui discenderebbe l’ulteriore questione relativa alla selezione giustificata delle discipline chiamate a interagire tra loro per offrire il migliore outcome scientifico.[63] In effetti, scienze diverse pongono domande di ricerca con un focus diverso;[64] e quelle concernenti la sfera giuridica, nelle ricerche pienamente interdisciplinari, dovrebbero essere riformulate al fine di risultare intellegibili agli studiosi di altre discipline.[65]
Anche accontentandosi di un approccio interdisciplinare meno spinto, i problemi non mancano né appaiono di poco conto.[66]
Anzi, le difficoltà e i rischi correlati all’uso dell’interdisciplinarietà si manifestano in forma più o meno intensa a seconda della disciplina altra con cui il diritto (comparato) “coopera” o interagisce.
In quest’ottica, potrebbe rilevare l’individuazione delle c.d. neighbouring disciplines.[67] Come si è già avuto modo di ricordare, alcune di queste hanno un indubbio grado di contiguità con il diritto, soprattutto con quello comparato. Il riferimento più facile è alla storia, che è strettamente collegata, in modo quasi indissolubile,[68] alla dimensione diacronica della comparazione, in ambito tanto pubblicistico quanto privatistico. Grande attenzione è pure stata riservata alle scienze economiche; particolarmente affini al diritto pubblico comparato sono poi le scienze politologiche.[69]
Invero, come si è anticipato, l’individuazione della scienza con la quale il giurista è portato a dialogare dipende, di regola, dalla natura stessa dell’oggetto della ricerca comparatistica. Secondo Paolo Carrozza, esiste una «interdisciplinarietà necessaria», dovuta ad una sorta di corrispondenza biunivoca fra alcuni oggetti di indagine comparatistica e alcune discipline diverse dal diritto.[70] Ad esempio, lo studio del federalismo fiscale comporta il «ricorrere a strumenti conoscitivi che attingono per un verso alla scienza del diritto costituzionale, e a quelle del diritto amministrativo, regionale e degli enti locali, tributario, fiscale e comparato, e per altro verso, alle diverse scienze economiche vale a dire la scienza delle finanze, l’economia politica, l’economia sociale e la politica economica, nonché infine alle discipline politologiche».[71]
Accanto alle discipline altre che presentano naturali punti di contatto, se non di vera e propria fusione[72] con il diritto, e in cui i rischi in parola sembrano meno evidenti o comunque risultano maggiormente gestibili, vi sono poi discipline altre inedite, che però sempre più spesso si intrecciano con il diritto. Qui i pericoli legati ad una conoscenza incompleta o non direttamente verificata della materia si sommano a quelli derivanti dalle diverse impostazioni di metodo e, in alcuni casi, vengono amplificati anche da un uso potenzialmente equivoco della terminologia. Si pensi alle collaborazioni, invero ancora poco collaudate, tra il diritto e i più recenti sviluppi tecnologici, che impongono nuove regolazioni e, dunque, attraggono l’interesse della scienza giuridica. Ebbene, il giurista, nell’approcciare questi temi, si trova a dover dialogare con studiosi di informatica, elettronica, fisica, che usano alla base della loro ricerca il linguaggio della matematica.[73] Ancora, sempre a livello esemplificativo, negli studi che toccano la bioetica,[74] il giurista non frequenta solo i classici ambiti della sociologia e dell’antropologia, ma viene altresì “esposto” alle acquisizioni della medicina, delle scienze biologiche e genetiche, nonché alla filosofia e all’etica.
Del resto, in senso analogo, benché in un’ottica speculare, cioè dell’altro studioso (diverso dal giurista), la pericolosità insita nella commistione dei saperi appare manifesta allorquando il diritto diviene strumento per l’esame di altre discipline, si pensi all’economia e, in particolare, agli studi che si propongono di spiegare il sorgere dei modelli economici sulla base di dati assetti istituzionali o, più in generale, alle analisi che mirano a lumeggiare consequenziali e, perciò, significanti relazioni tra outcomes economico-finanziari e i loro presupposti giuridico-istituzionali.
Accanto agli esempi classici, legati al mondo dell’economia, si può altresì porre l’attenzione sugli aspetti giuridici originati dallo sviluppo tecnologico, giacché gli inediti orizzonti segnati dalle new technologies richiedono prospettive di studio allargate. Si pensi agli ancora non completamente esplorati campi della robotica e delle nanotecnologie, ma l’elenco potrebbe comprendere le biotecnologie, come pure le ultime frontiere dell’informatica e, parallelamente, le relative e altrettanto tuttora poco sondate implicazioni giuridiche.
In quest’ottica, seppure da una prospettiva opposta rispetto a quella che si assume in questo scritto, sono del pari facilmente intuibili le biunivoche difficoltà dello studioso nel dominare teorie e concetti con i quali non ha dimestichezza, peraltro spesso condizionati dalle loro radici storiche e cioè da contesti “ambientali di origine” influenzati da specifiche matrici culturali.
Dalla prospettiva di questo lavoro, allorquando il giurista apre l’indagine a discipline altre rispetto al diritto è chiamato a confrontarsi con una letteratura con la quale non ha dimestichezza e spesso neppure mera familiarità; pertanto, le insidie si affacciano già dalla fase iniziale della mera ricerca di materiale (i dubbi sorgono sui testi da cui partire, sugli autori di riferimento da leggere, ecc.).[75] Superato questo primo step, cioè ammettendo di aver selezionato la bibliografia utile allo scopo, si presenta la seconda insidia, ovverosia la corretta interpretazione, se non – per certe scienze – addirittura la necessaria verificazione. Questo secondo passaggio nasconde rischi tutt’altro che scontati, poiché impadronirsi o almeno conoscere i concetti di una disciplina non equivale ad essere immersi nel mondo di quella disciplina. Anzi, spesso il giurista è costretto a ricorrere alla consulenza di esperti, i quali non è escluso abbiano “opinioni” diverse del medesimo problema oggetto di indagine; di qui il disagio del giurista che deve scegliere a quale visione uniformarsi per condurre la propria ricerca.[76]
Per altro verso, la dottrina ha ampiamente segnalato il rischio per il giurista di diventare un «‘amateur social scientist’»[77] e, con specifico riferimento al comparatista, è del pari stato evidenziato il pericolo del «dilettantismo tuttologico».[78]
In termini maggiormente articolati, nel sostenere l’inclinazione interdisciplinare, soprattutto nella sua dimensione advanced come richiamata nella Premessa di questo lavoro, del diritto comparato, si asserisce, implicitamente, la necessaria preparazione del giurista in ambiti disciplinari diversi dal proprio; dunque, sul piano operativo, si spinge lo studioso del diritto ad addentrarsi in campi del sapere che stanno al di fuori del perimetro segnato dal giuridico,[79] ed anche laddove prossimi al confine conosciuto – il riferimento è, ad esempio, alla storia e alla sociologia – restano altri e potenzialmente, per molti, impervi. Ragionando sull’interdisciplinarietà tra storia e diritto, ancora a fine anni Novanta, Mark Tushnet prende a prestito le parole di Brian Leiter[80] per segnalare il pericolo di «intellectual voyeurism», che consiste proprio nel «superficial and ill-informed treatment of serious ideas, apparently done for intellectual ‘titillation’ or to advertise, in a pretentious way, the ‘sophistication’ of the writer».[81]
Da una prospettiva più mirata, le difficoltà non vengono meno, si pensi alle barriere linguistiche, come pure alle insidie nascoste dietro la terminologia c.d. di settore, cioè nel linguaggio specifico di ogni scienza. Spesso quando si tocca il “tasto” linguistico, soprattutto tra i giuspubblicisti, si vuole evidenziare il rischio di una resa non appropriata nella lingua di lavoro, dovuto alla traduzione c.d. letterale, di un termine che ha un diverso significato sostanziale nei contesti chiamati in gioco nella comparazione oppure si vuole sottolineare la mancanza in un dato ordinamento di un istituto presente in un altro ordinamento, dal che discende l’assenza di un termine adeguato nella lingua di riferimento.[82] Ciò nondimeno, diverse discipline possono dare alla medesima parola significati diversi, finanche nella stessa lingua.[83] A tal proposito e al fine di evitare possibili fraintendimenti, Antonio Gambaro, nell’affrontare i problemi definitori, nota come «discorsi appartenenti a diversi ambiti disciplinari» implichino «significati troppo variati» per poter prescindere da una «premessa chiarificatrice».[84]
Al di là delle questioni definitorie e, più in generale, di quelle linguistiche, è ben noto che, l’interdisciplinarietà, soprattutto quando usata dal giurista comparatista, non può prescindere dal non facile sforzo di contestualizzazione. La dottrina ha evidenziato gli aspetti sfidanti legati allo sviluppo di un effettivo «cross-cultural understanding», che vede il giurista paragonato al diplomatico, per il quale non è sufficiente dominare la lingua del Paese in cui opera, ma è altresì necessaria un’ampia e profonda conoscenza del sostrato culturale e antropologico della comunità sociale in cui è inserito.[85]
Alla luce di quanto detto, non è difficile concordare con Husa quando sostiene che un «serious interdisciplinary study is far from easy».[86]
In definitiva, e malgrado le affermazioni di principio e gli sforzi sul campo, bisogna prendere atto che la ricerca interdisciplinare, almeno nella sua definizione più stretta (v. par. 1), in non pochi lavori resta un’aspirazione ancora da realizzare pienamente.[87]
4. È utile perseverare nella spinta interdisciplinare?
Da un punto di vista storico e teorico, gli ostacoli alla propensione del diritto comparato all’interdisciplinarietà – tendenza, peraltro, segnata dalla natura geneticamente “sovversiva”[88] degli studi comparatistici – vanno rinvenuti nel positivismo giuridico di matrice monista che, come è noto, ha pervaso l’Europa lungo tutta la seconda metà del XIX secolo. Anzi, l’impronta positivista si è estesa nel successivo, combinata con il nazionalismo emerso tra le due Guerre e, poi, fiorito sotto i regimi totalitari del secolo breve.[89]
Questo contesto non ha certo favorito, almeno in Europa, l’approccio interdisciplinare nell’indagine giuridica. Tuttavia, ferme le difficoltà e i rischi che lo studioso si è trovato a correre, il graduale, ma inesorabile, percorso verso l’apertura ad altri saperi, anche nell’indagine giuridica, viene imposto, persino al di qua dell’Atlantico,[90] dalla complessità del mondo. Nel lumeggiare questa traiettoria, con specifico riferimento all’ambito pubblicista, Giovanni Bognetti, preso atto dell’affermarsi di «…metodi formalistici», tipici della scuola positivistico-statalista del diritto, che, secondo lo studioso milanese, hanno lasciato «tracce negative in opere di diritto pubblico comparato pur prodotto da studiosi di alta qualità», senza esitazione riconosce che «…compito dei successivi studi di diritto costituzionale comparato è stato proprio quello di liberarsi progressivamente dell’impostazione positivistica e della sistematica concettuale che le era congiunta».[91]
Invero, e in estrema sintesi, se da un canto la vocazione all’interdisciplinarietà, correlata alla natura sovversiva, trova nella comparazione un propizio terreno evolutivo (v. par. 2), dall’altro, ancora oggi, dopo due decenni del XXI secolo, cioè ad oltre centovent’anni dal Congresso di Parigi, non pochi prodotti della comparatistica occidentale, soprattutto europea, risultano ancora impostati in ottica monista e, se non inchiodati ad una logica dogmatico-dottrinale, comunque poco inclini ad una piena apertura all’interdisciplinarietà in senso avanzato[92] (v. par. 3).
Ecco ripresentarsi, dopo averne verificato le asserzioni (parr. 2 e 3), il paradosso da cui si è partiti (v. par. 1), il che porta ad interrogarsi sull’utilità della (consapevole) intuizione di perseverare nella spinta interdisciplinare della ricerca giuridico-comparativa.
Dalla prospettiva che si vuole proporre, la risposta a questo tormentato quesito non può che essere convintamente affermativa e argomentata almeno con due diversi ordini di ragioni: uno centrato sugli “impulsi” interni, che si possono sintetizzare nel classico interesse alla conoscenza, non come puro diletto intellettuale, ma come curiosa penetrazione dei fenomeni sociali, che consentono di comprendere le parti inespresse (rectius, mute) del diritto in un mondo ormai globale; l’altro maggiormente focalizzato sugli impulsi “esterni”,[93] giacché oggi non c’è call, nazionale o meno, per l’assegnazione di fondi di ricerca, che non richieda la valorizzazione dell’approccio interdisciplinare (di regola, combinato con quello internazionale). Tra gli stimoli esterni meritano altresì esplicita menzione le avventure editoriali curvate sull’interdisciplinarietà; basti il richiamo a Global Constitutionalism,[94] rivista giuridica pubblicata dalla prestigiosa Cambridge University Press, dunque sede di pubblicazione incentivata dai meccanismi premiali di valutazione universitaria.
La combinazione di questi motivi pragmatici, legati alla vita accademica, con quelli vocazionali, derivanti dal puro interesse per la conoscenza scientifica, persuade dunque ad insistere sull’accidentato cammino dell’interdisciplinarietà,[95] funzionalizzata a trovare soluzioni ai problemi del vivere quotidiano, sempre più complessi nella global era.
Insistere nella spinta interdisciplinare non significa ripetere le passate esperienze, in parte fallite o comunque non portate a pieno compimento; difatti, l’analisi che si è sviluppata nei paragrafi precedenti se, da un lato, ha sottolineato l’indole interdisciplinare delle scienze giuridiche, in generale, e del diritto comparato, in particolare, d’altro, ne ha registrato le obiettive difficoltà di realizzazione pratica, almeno nell’idea definitoria più radicale che si è avanzata in Premessa.
Orbene, nel guardare in faccia alla realtà, pur non negando le “fughe in avanti” di un’élite capace di ragionare in termini di interdisciplinarietà piena e compiuta nel suo processo evolutivo,[96] bisogna però prendere atto che si tratta di esperienze, se non uniche, assai limitate e peraltro “rivoluzionarie”. Come quella stessa élite pare sostenere, il traguardo finale del percorso interdisciplinare porterebbe a una nuova disciplina, e di conseguenza a un inedito profilo di studioso. L’idea che si vuole proporre in questo scritto è, invece, quella di coltivare una realistica attitudine interessata agli altri saperi, che possa coesistere, nel senso della complementarietà funzionale, con quella tradizionale (identitaria per il giurista) necessariamente dogmatica e positivista.[97] Insomma, anziché avvertire l’insoddisfazione della mancata (rectius, non completa) transizione, andrebbe valorizzato e apprezzato lo sforzo di conciliare più approcci metodologici,[98] che non si fondono in un metodo nuovo servente un nuovo “settore disciplinare”, ma si combinano nel restare in continua tensione. Il “punto di caduta” del ragionamento che si propone è allora su una posizione aperta, anzi favorevole, alle diverse sperimentazioni, proposte dal vivace e spesso critico[99] confronto dottrinale, ma che continua a fare perno sull’ottica giuridica.[100] Quest’ultima si deve aprire alle acquisizioni delle altre discipline, laddove utili alla decodificazione dei fenomeni sociali sottesi ai problemi da affrontare. Anzi, in questo percorso il comparatista deve riuscire a “passare” indenne dalle insidie di entrambi i fronti (cioè, black letter law research e amateurish), riproposte dall’efficace metafora di Husa, il quale richiama le figure mitologiche di Scilla e Cariddi.[101]
*Il presente lavoro è stato originariamente pubblicato in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2/2021, 301-325. Si ringrazia la Società editrice il Mulino per aver consentito la ripubblicazione di questo contributo.
R. van Gestel, H.-W. Micklitz, M. Poiares Maduro, Methodology in the New Legal World, EUI Working Paper Law 2012/2013, 12.
Nel presente lavoro, l’espressione “scienze giuridiche” è utilizzata per mera facilità di esposizione. Non si intende invece entrare nel vivace dibattito che ha appassionato gli studiosi del settore sull’appartenenza (o meno), in via generale, degli studi giuridici “classici” (diritto privato, diritto costituzionale, ecc.) al novero delle scienze sociali.
Ibid.
R. Michaels, The Functional Method of Comparative Law, in M. Reimann, R. Zimmermann (eds.), The Oxford Handbook of Comparative Law, Oxford, 2006, 340.
J. Husa, Interdisciplinary Comparative Law---Between Scylla and Charybdis?, in 9 Journal of Comparative Law 28 (2014).
F. Ross, ‘Degrees of Disciplinarity in Comparative Politics: Interdisciplinarity, Multidisciplinarity and Borrowing’, in European Political Sciences, n. 8(1), 2009, p. 26; D.M. Hussey Freeland, ‘Law and Science: Toward a Unified Field’, in Connecticut Law Review, n. 47, 2014, p. 529. V., inoltre, G. Guerra, ‘An Interdisciplinary Approach for Comparative Lawyers: Insights from the Fast-Moving Field of Law and Technology’, in German Law Journal, n. 19, 2018, p. 579.
Cfr. la posizione di A. Pizzorusso, La comparazione giuridica e il diritto pubblico, in Il Foro Italiano, 1979, p. 131 ss., spec. 135, secondo cui «svolgere uno studio interdisciplinare vuol dire studiare una realtà dal punto di vista di scienze diverse confrontando i risultati dell’impiego delle rispettive metodologie, ma non vuol dire invece mescolare insieme queste metodologie nel discutibile intento di raggiungere risultati diversi da quelli che sarebbero possibili attraverso l’impiego distinto (ed eventualmente reciprocamente servente) delle medesime».
D.W. Vick, ‘Interdisciplinarity and the Discipline of Law’, in Journal of Law and Society, n. 31, 2004, p. 163, secondo cui «interdisciplinarity implies an integration or synthesis – an interconnection between different academic disciplines». Si è parlato anche di interdisciplinarietà come «space of encounter» tra il diritto e le altre scienze; in questo senso, L. Kalman, The Strange Career of Legal Liberalism, Yale, 1996, p. 239.
Il concetto è stato introdotto da J. Piaget, L’épistémologie des rélations interdisciplinaires, Paris, 1972. V. altresì B. Nicolescu, Manifesto of Transdisciplinarity, New York, 2002.
G. Bammer, M. Smithson (eds.), Uncertainty and Risk. Multidisciplinary Perspectives, London-New York, 2008. Si noti, tuttavia, che vi è chi definisce la cross-disciplinarity come la categoria generica in cui vanno a confluire o sono inglobati i concetti di multidisciplinarietà, interdisciplinarietà e borrowing (su quest’ultimo concetto, v. infra); in tal senso, F. Ross, op. cit., p. 30, con specifico riferimento alla comparative politics.
B. Nicolescu, op. cit., p. 1. Cfr. anche L. Kalman, op. cit.
F. Ross, op. cit., p. 33.
Il primo livello di interdisciplinarietà vede l’utilizzo delle scienze altre rispetto al diritto in prospettiva, come si è detto, “euristica”. Nello specifico, si intende che la prospettazione del problema o della domanda di ricerca viene costruita integralmente secondo il metodo delle scienze giuridiche, ma lo studioso, nel condurre l’indagine, si serve di materiali e concetti che sono propri di altre scienze. Il secondo livello di interdisciplinarietà si fonda sull’impiego delle scienze altre in funzione “ausiliaria”, il che comporta l’applicazione delle altre scienze per dimostrare una data tesi di carattere giuridico. Il terzo livello di interdisciplinarietà utilizza poi la scienza altra in funzione “comparativa”: uno stesso problema può quindi essere esaminato da due o più prospettive, una giuridica e un’altra (o da altre) di diversa natura. Il quarto livello afferma una visione “prospettivista” di interdisciplinarietà, secondo cui le domande di ricerca e le conclusioni sono valide per entrambe (o tutte) le discipline che vengono messe in campo per affrontare un dato problema. Il quinto livello viene invece definito “integrato”, in quanto due o più scienze riescono ad applicare gli stessi concetti e lo stesso approccio metodologico. S. Taekema, B. van Klink, ‘On the Border. Limits and Possibilities of Interdisciplinary Research’, in B. van Klink, S. Taekema (eds.), Law and Method. Interdisciplinary Research into Law, Tübingen, 2011, p. 7.
M.M. Siems, ‘The Taxonomy of Interdisciplinary Legal Research’, in Journal of Commonwealth and Legal Education, n. 7, 2009, p. 5.
V. nota 13.
R. van Gestel, H.-W. Micklitz, M. Poiares Maduro, op. cit., p. 12.
U. Kischel, Comparative Law, Oxford, 2019, pp. 11-26.
M. Reimann, R. Zimmermann (eds.), The Oxford Handbook of Comparative Law, Oxford, 2019, che include capitoli centrati su comparative law and language, comparative law and religion, comparative law and socio-legal studies.
R. Michaels, ‘The Functional Method of Comparative Law’, in M. Reimann, R. Zimmermann (eds.), The Oxford Handbook of Comparative Law, op. cit., p. 342, secondo cui «comparatists know that looking through the eyes of foreign law enables us to understand our own, so looking through the eyes of foreign disciplines should similarly help us to understand our own discipline».
M.M. Siems, Comparative Law, Cambridge, 2018, p. 10.
G. Frankenberg, Comparative Law as Critique, Cheltenham and Northampton, 2016, p. 13.
Mary A. Glendon et al., Comparative Law in a Nutshell, New York, 2016, p. 11. Secondo gli AA., «comparative law is by its very nature an interdisciplinary field». Cfr. nota 5.
M. Reimann, ‘Comparative Law and Neighbouring Disciplines’, in M. Bussani, U. Mattei (eds.), The Cambridge Companion to Comparative Law, Cambridge, 2013, p. 13.
F. Werro, ‘Comparative Studies in Private Law’, in M. Bussani, U. Mattei (eds.), op. cit., p. 137.
P. Legrand, ‘The Verge of Foreign Law – With Derrida’, in Romanian Journal of Comparative Law, n. 1, 2010, p. 73 ss.; V.J. Derrida, Papier machine, Paris, 2001.
M. Rosenfeld, A. Sajó (eds.), Oxford Handbook of Comparative Constitutional Law, Oxford, 2012, p. 2. L’introduzione del volume, a firma dei due Curatori, enfatizza che, metodologicamente, «the subject matter coming within the sweep of comparative constitutionalism has been analyzed from the various perspectives of many different disciplines beyond law, including political science, political theory, and philosophy».
P. Zumbansen, ‘Carving Out Typologies and Accounting for Differences Across Systems: Towards a Methodology of Transnational Constitutionalism’, in M. Rosenfeld, A. Sajo (eds.), op. cit., 95.
T. Ginsburg, R. Dixon (eds.), Comparative Constitutional Law, Cheltenham and Northampton, 2011. Si veda, in particolare, Introduction.
Ibid., 1. Similmente, Geoffrey Samuel dedica all’interdisciplinarietà un paragrafo del suo Introduction to Comparative Law Theory and Method; nello specifico l’A. afferma che: «the jurist could learn much from subjects as comparative literature, comparative linguistics, comparative religion, comparative politics and the like»; G. Samuel, An Introduction to Comparative Law Theory and Method, Oxford, 2014, pp. 23-24. Lo studioso inglese richiama i lavori di Annelise Riles, la quale pone in dubbio la stessa distinzione fra (mono-)disciplinarità e interdisciplinarietà nell’ambito degli studi giuridici, sostenendo come «we can speak of legal categories and techniques as generative notions […], incorporated into the social sciences as the social sciences thinking is incorporated into law»: A. Riles, ‘Comparative Law and Social Legal Studies’, in M. Reimann, R. Zimmermann (eds.), The Oxford Handbook of Comparative Law, Oxford, 2006, pp. 775, 808.
A. Voßkuhle, T. Wischmeyer, ‘The ‘Neue Verwaltungsrechtswissenschaft’ against the Backdrop of Traditional Administrative Law Scholarship in Germany’, in S. Rose-Ackerman et al. (eds.), Comparative Administrative Law, Cheltenham and Northampton, 2017, p. 94, secondo cui «[a]dministrative law is no autonomous realm».
Ibid., pp. 94-95.
V. il Rapporto nazionale italiano al IX Congresso internazionale di diritto comparato, tenutosi a Teheran nel 1974; spec. R. Sacco, Le buts et les méthodes de la comparaison du droit, in Rapport nationaux italiens au IX Congrès International de Droit Comparé, Milano, p. 113. La teoria dei formanti ha trovato ampia diffusione grazie alla pubblicazione, dello stesso A., di ‘Legal Formants: A Dynamic Approach to Comparative Law, Install. I-II’, in American Journal of Comparative Law, n. 39(1), 1991, p. 343. V., anche, P.G. Monateri, R. Sacco, ‘Legal Formants’, in J. Eatwell et al. (eds.), The New Palgrave Dictionary of Economics and the Law, London, 1998, 533; più recentemente e in correlazione con la teoria di Hayek dell’analisi del diritto come ordine storico complesso, P.G. Monateri, Legal Formants and Competitive Models: Understanding Comparative Law from Legal Process to Critique in Cross-System Legal Analysis, https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1317302. Se, in un primo momento, la teoria dei formanti è stata studiata e applicata soprattutto dai comparatisti privatisti, anche molti comparatisti pubblicisti hanno poi dimostrato aperture sul punto, tra gli altri: R. Scarciglia, ‘Strutturalismo, formanti legali e diritto pubblico comparato’, in questa Rivista, 2017, p. 649; Id., Introduzione al diritto pubblico comparato, Bologna, 2006, p. 56; L. Pegoraro, A. Rinella, Sistemi costituzionali comparati, Torino, 2017, p. 11.
V. Denti, ‘Diritto comparato e scienza del processo’, in R. Sacco (cur.), L’apporto della comparazione nella scienza giuridica, Milano, 1980, p. 205.
G. Gorla, Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, p. 44. Sui rapporti tra filogenesi storica, strutturalismo e funzionalismo nell’ambito del diritto comparato italiano, D. di Micco, ‘La comparazione alla prova del mondo che cambia’, in questa Rivista, 2020, p. 3 ss.
Ibid., p. 546. Anche più di recente, alcuni Autori hanno ritenuto la storia (rectius, la storia giuridica) e il diritto comparato (rectius, la comparazione diacronica) due campi del sapere così vicini da considerarli quasi sovrapposti. A tal proposito, U. Kischel, op. cit., p. 12, che rileva come «[l]egal history is sometimes described as comparative law over time». Sul rapporto fra diritto comparato e storia, v. G.F. Ferrari, Comparazione e storia, in questa special issue.
G. Bognetti, ‘Oggetto e metodo’, in P. Carrozza, A. Di Giovine, G.F. Ferrari (cur.), Diritto costituzionale comparato, 2009, p. 18. Sull’interazione tra diritto e storia e diritto e discipline politologiche, v. anche G. Bognetti, Diritto costituzionale comparato. Approccio metodologico, Modena, 2011, 201 e Id., ‘Esperienze fuori dall’Italia’, in R. Sacco et al. (cur.), L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, Milano, 1980, p. 313. Con specifico riferimento alla storia, cfr. G. Lombardi, Premesse al corso di diritto pubblico comparato, Milano, 1986, p. 25, secondo cui «lo studio storico serve al comparatista, ma pur esistendo molti punti di contatto tra lo storico e il comparatista si tratta di due figure che non possono essere confuse». Appare poi cauto nei confronti della sociologia Giovanni Bognetti laddove afferma che, sebbene «la comparazione giuridica potrà porgere una utile mano alla sociologia», conviene, a tal proposito, «non porre troppo in alto i traguardi cui può aspirare la comparazione»: G. Bognetti, Diritto costituzionale comparato, Torino, 1994, p. 102. Sempre con specifico riferimento alla sociologia, oltre vent’anni dopo, assai più aperta risulta la posizione di L. Pegoraro, ‘Comparación jurídica y uso “externo” de las otras ciencias’, in Revista jurídica Avances, 2012, p. 295.
G. Morbidelli, M. Volpi, G. Cerrina Feroni (cur.), Diritto costituzionale comparato, Torino, 2020.
Ibid., 5, nell’ambito del capitolo La comparazione giuridica: profili introduttivi, di G. Morbidelli e G. Cerrina Feroni.
Più indiretti, invece, i riferimenti all’approccio interdisciplinare in G. de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Torino, 2019, p. 49, che parla di diritto comparato come strumento servente alla «verifica delle conoscenze» (conoscenze che potrebbero derivare anche da altre discipline).
L. Pegoraro, A. Rinella, op. cit., p. 18. In modo assai suggestivo, gli AA. affermano anche che, come l’architetto, per poter svolgere il suo lavoro, necessita dell’opera del muratore che costruisca la casa (pur trattandosi di due figure diverse), così il comparatista ha, in primo luogo, bisogno delle «ricostruzioni degli studiosi nazionali» e si deve appropriare non solo delle nozioni dei diritti interni, ma pure della mentalità della dottrina dei singoli Paesi, la quale è spesso condizionata dalle scienze altre. V., inoltre, L. Pegoraro, ‘Cultura e culture. Rileggendo Roberto Toniatti attraverso qualche esergo sparso qua e là’, in Pluralismo nel diritto costituzionale comparato. Blog per il 70 anni di Roberto Toniatti, 2020, 1, in cui l’A., nel delineare una sorta di “profilo identitario” del comparatista pubblicista, riconosce gli stretti legami non solo con le discipline affini, come il diritto privato comparato, ma anche con «sociologia, antropologia, storia e geografia», rilevando le «difficoltà di delimitazione disciplinare».
Id., ‘Ruolo della dottrina, comparazione e legal tourism’, in U. Mattei et al. (cur.), Un giurista di successo. Studi in onore di A. Gambaro, Milano, 2017, p. 317 afferma che le relazioni tra il diritto comparato e le altre scienze possono essere «ottime e proficue».
L. Pegoraro, A. Rinella, ‘Introduzione metodologica’, in G. Morbidelli et al., Diritto pubblico comparato, Torino, 2016, spec. § 4 di Lucio Pegoraro.
Ibid., p. 8: «Il primo punto da affrontare per un comparatista è come usare in modo strumentale scienze diverse da quella giuridica».
P. Ridola, Il principio libertà nello stato costituzionale: i diritti fondamentali in prospettiva storico-comparativa, Torino, 2018, p. 373.
Ibid.
R. Scarciglia, Metodi e comparazione giuridica, Padova, 2018, p. 90. Secondo Scarciglia, oltre al diritto, oggetto della comparazione devono essere «gli strati più profondi e cognitivi» degli ordinamenti; in definitiva, l’A. vuole arrivare alla «comparazione interculturale».
R. Sacco, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1992, p. 131. Sulle interrelazioni tra storia giuridica, sociologia, etnologia giuridica, etc., v. inoltre K. Zweigert, H. Kötz, An Introduction to Comparative Law, Oxford, 1998, p. 8.
L’interesse per la ricerca storica è evidente nella parte dedicata a Il diritto comparato e le altre scienze, nell’ambito del lavoro di R. Sacco, Che cos’è il diritto comparato, Milano, 1992, 45 ss. Si vedano anche le c.d. Tesi di Trento, del 1987, che postulano che «la comparazione ha lo stesso criterio di validazione delle scienze storiche» (II tesi).
Il testo delle Tesi di Trento può essere rinvenuto in A. Gambaro, P.G. Monateri, R. Sacco, ‘Comparazione giuridica’, in Dig. Disc. Privatistiche, vol. 3, Torino, 1988, pp. 48, 51.
Nelle diverse edizioni di Introduzione al diritto comparato viene dedicato un paragrafo all’«esperienza antropologico-giuridica», ritenuta imprescindibile per lo studioso del diritto comparato.
V., inoltre, A. Gambaro, P.G. Monateri, R. Sacco, Comparazione giuridica, op. cit., p. 48 ss.
R. Sacco, Antropologia giuridica. Contributo ad una macrostoria del dritto, Bologna, 2007.
R. Sacco, Il diritto muto, Bologna, 2015.
P.G. Monateri, U. Mattei, Introduzione breve al diritto comparato, Padova, 1997, p. 83 ss.
M. Graziadei, ‘Comparative Law as the Study of Transplants and Receptions’, in M. Reimann, R. Zimmermann (eds.), op. cit., p. 442.
Ibid., p. 468.
R. Sacco, A. Gambaro, Sistemi giuridici comparati, Torino, 2018, p. 7. V. anche le precedenti edizioni.
A. Somma, Introduzione al Diritto Comparato, Bari, 2014, Premessa.
V. Zeno Zencovich, Comparative Legal Systems. A Short Introduction, Roma, 2017, p. 99.
P.G. Monateri, ‘Introduction’, in Id. (ed.), Methods of Comparative Law, Cheltenham-Northampton, 2012, p. 2.
P.G. Monateri, ‘Methods in Comparative Law: An Intellectual Overview’, in Id. (ed.), Methods of Comparative Law, op. cit., p. 83.
Come è ben noto, il I Congresso internazionale di diritto comparato si è tenuto a Parigi nel 1900, in occasione dell’Esposizione Universale. V. Congrès International de Droit Comparé, Procès-verbaux des séances et documents, Paris, 1900. Nel secolo precedente, non può dirsi essere mancata la spinta comparatistica in ambito giuridico, tuttavia questa viene ricondotta, in un primo periodo (1800-1850), all’attività di singole personalità (ad es. Karl Salomo Zachariae von Lingenthal, Karl Joseph Anton Mittermaier), per poi iniziare ad essere istituzionalizzata, soprattutto in Francia con la fondazione, nel 1869, della Société de législation comparée e di alcune riviste tedesche dedicate alla comparazione. Questo passaggio di istituzionalizzazione è considerato il preludio al Congresso di Parigi e al riconoscimento del diritto comparato come scienza.
V. L.-J. Constantinesco, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1996, p. 63 ss. Spec. in ottica pubblicistica, v., inoltre, G.F. Ferrari, ‘Le origini della comparazione pubblicistica’, in questa Rivista, 2012, p. 3 ss., con spec. riferimento all’interdisciplinarietà, pp. 20-21.
J. Husa, op. cit., p. 28. Meno di un ventennio prima, Tushnet notava che: «a high proportion of the most-cited articles are doctrinal in the classic sense»: M. Tushnet, Interdisciplinary Legal Scholarship: The Case of History-in-Law, in Chicago-Kent Law Review, n. 71, 1997, p. 909.
A tal riguardo, sembra efficace la fortunata metafora di Scilla e Cariddi, usata da Husa, secondo cui «[a] comparatist has to choose between two evils. Either one does narrowly understood black letter law research, or one is doomed to become an amateurish sociologist, linguist, economist». J. Husa, op. cit., p. 28.
M.-C. Ponthoreau, Le pluralisme méthodologique dans l’enquête comparative à l’heure de la globalisation, in questa Rivista, 2017, p. 58.
Cfr. U. Mattei, ‘Three Patterns of Law: Taxonomy and Change in the World’s Legal Systems’, in American Journal of Comparative Law, n. 45(1), 1997, pp. 5, 18, il quale rileva come la comparazione in ambito giuridico corra il rischio di diventare «an idle exercise in pseudo-comparative sociology».
Ad esempio, le scienze naturali tendono alla spiegazione di fenomeni rilevabili in natura, mentre quelle umanistiche mirano a capire le dinamiche del pensiero e del comportamento umano. In relazione alle domande di ricerca, Mathias Siems ribalta questa prospettiva e osserva che sono invero le domande di ricerca stesse a condizionare sia il metodo sia l’utilità della/e disciplina/e altra/e. M. Siems, ‘Comparative Law’, op. cit., p. 8.
A ciò si aggiungano le possibili problematiche metodologiche, dato che scienze diverse potrebbero applicare metodi differenti. Sulla diversità dei metodi, tra gli altri, M. Van Hoecke, ‘Legal Doctrine: Which Method(s) for What Kind of Discipline?’, in Id. (ed.), Methodologies of Legal Research: Which Kind of Method for What Kind of Discipline, Oxford, 2011, p. 1 ss., in cui quest’A. cerca di combinare – rectius, di spiegare – il metodo delle discipline giuridiche con quello prettamente scientifico. Resta comunque innegabile che molte scienze, ad es. quelle c.d. dure rispetto a quelle umane o sociali, non condividono alcuni fattori di base, che si potrebbero dire ontologici, G.F. Ferrari, ‘La comparazione tra necessità teoriche e limitazioni pratiche’, in DPCE Online, 2020, p. 821 richiama alcuni aspetti che determinano la «dividing line» tra scienze umane e scienze dure. Sugli aspetti metodologici, v. anche E. Mostacci, ‘Schemi di classificazione e comparazione giuridica: un regno immenso e anonimo’, in questa Rivista, 2017, pp. 1149, 1166, secondo cui ricerca teorica e indagine quantitativa possono fondersi nella comparazione, portando a «rinunciare a una concezione normativa delle metodiche operazionali esperibili e puntare l’accento sulla necessaria esplicazione delle finalità sottese al programma di ricerca e sulla coerenza tra queste, l’oggetto e le modalità operative dell’analisi».
Per una ricognizione particolarmente ampia e centrata non solo sul diritto comparato, ma in generale sulle scienze giuridiche, v. S. Taekema, B. van Klink, op. cit., p. 8 ss. Si focalizza invece in particolare sui vantaggi del ricorso alla ricerca empirica S. Baldin, ‘Diritto e interdisciplinarità. Note sulla integrazione metodologica con le altre scienze sociali’, in Revista General de Derecho Público Comparado, n. 25, 2019.
V., anche, Id., ‘Riflessioni sull’uso consapevole della logica fuzzy nelle classificazioni fra epistemologia del diritto comparato e interdisciplinarità’, in Revista General de Derecho Público Comparado, n. 10, 2012.
G. Resta, A. Somma e V. Zeno-Zencovich classificano i saperi altri distinguendoli in umanistici e scienze sociali. G. Resta, A. Somma, V. Zeno-Zencovich (cur.), Comparare. Una riflessione fra le discipline, Milano-Udine, 2020, p. 38 ss. Gli AA. fanno rientrare tra i saperi “umanistici” la storia, la letteratura, la filologia e l’antropologia, mentre riconducono ai saperi “sociologici” la scienza politica, la sociologia, l’economia.
V. par. 1 e spec. i riferimenti a Gorla, Bognetti e, più di recente, Kischel.
Sul piano della formazione, si nota che i corsi universitari e post-universitari di diritto prevedono, nei piani didattici, l’insegnamento di discipline come la storia (perlomeno quella giuridica), oltreché nozioni basiche di politologia ed economia, proprio perché considerate strettamente serventi rispetto agli studi giuridici (non solo comparatistici). Ci sono poi altre discipline che, seppure non tradizionalmente viste come intrinsecamente legate al diritto, sono, almeno da qualche decennio, studiate da alcune scuole in stretta correlazione con il diritto (specialmente comparato). Si pensi ad esempio all’antropologia – il riferimento è agli studi di Sacco, che ormai hanno radicato l’interesse per il tema in relazione alla comparazione – o alla letteratura – si consideri il filone di Law and Literature, consolidato grazie alle ampie e approfondite analisi di Monateri. E infatti anche i corsi universitari si stanno adattando a questo andamento, poiché le due aree disciplinari portate ad esempio sono non di rado incluse nelle offerte formative degli atenei. Cfr. infra, nota 95.
P. Carrozza, contributo in ‘Forum Law and the Life Sciences’, in BioLaw Journal, n. 1, 2014. Lo studioso pisano esemplifica che sarebbe difficile scrivere sulla tutela giuridica delle minoranze senza conoscere di storia linguistica e di sociolinguistica; così come risulterebbe non facile disquisire delle forme di governo senza avere nozioni di filosofia politica e politologia.
G.F. Ferrari, ‘Il federalismo fiscale nella prospettiva comparatistica’, in Id. (cur.), Federalismo fiscale, sistema fiscale, autonomie. Modelli giuridici comparati, Roma, 2010, p. 6.
V. U. Kischel, op. cit., p. 12.
G. Guerra, op. cit. V. anche G. Pascuzzi (cur.), Il diritto nell’era digitale, Bologna, 2019.
Sul punto, C. Casonato, Introduzione al biodiritto. La bioetica nel diritto costituzionale comparato, Trento, 2006.
Sottolinea le difficoltà legate al reperimento dei materiali D. Ibbetson, ‘The Challenges of Comparative Legal History’, in Comparative Legal History, n. 1, 2013, p. 1.
E. Mostacci, op. cit., p. 1167, osserva che, per il comparatista, l’utilizzo delle acquisizioni dei saperi altri «si innesta necessariamente su una conoscenza imperfetta e non direttamente verificata».
R. van Gestel, A.-W. Micklitz, M. Poiares Maduro, op. cit., p. 14.
L. Pegoraro, A. Rinella, Sistemi costituzionali comparati, cit., p. 18. Sul punto, si rinvia anche a G. Crespi Reghizzi, ‘La comparazione giuridica estrema: L’Est europeo, l’Estremo Oriente, l’Africa e l’India’, in L. Antoniolli, G.A. Benacchio, R. Toniatti (cur.), Le nuove frontiere della comparazione, Trento, 2012, p. 244, che parla di «aree incontrollabili».
Ad esempio, il giurista che voglia inserire un’indagine empirica nel suo percorso di ricerca potrebbe non dominare le tecniche di raccolta e relativa analisi dei dati, utili allo studio che vuole affrontare.
Il riferimento è a B. Leiter, ‘Intellectual Voyeurism in Legal Scholarship’, in Yale Journal of Law and Humanities, n. 4, 1992, p. 79.
M. Tushnet, Interdisciplinary Legal Scholarship, op. cit., p. 910. V., inoltre, Id., ‘The Boundaries of Comparative Law’, in European Constitutional Law Review, n. 13, 2017, p. 13.
R. van Gestel, A.-W. Micklitz, M. Poiares Maduro, op. cit., p. 14; nello specifico, si individua un ulteriore problema legato alla lingua, sulla considerazione che l’inglese è ormai divenuto la “lingua franca” della ricerca, soprattutto di quella interdisciplinare, e quindi si ipotizza una possibile contrazione della profondità analitica degli studi di coloro che non sono madrelingua.
Sottolinea il problema dei c.d. false friends nel linguaggio della comparazione giuridica anche N. Brutti, Diritto privato comparato. Letture interdisciplinari, Torino, 2019, p. 53.
A. Gambaro, ‘Alcuni appunti sugli aspetti istituzionali della cosiddetta globalizzazione’, in Sociologia del diritto, 2005, p. 1. V., altresì, Id., Alcune novità in materia di comparazione giuridica, in Rivista di diritto commerciale, 1981, p. 297 ss., in cui l’A., nell’assumere un approccio cauto, rileva, da una parte, che «il diritto comparato può essere fuorviante se prima non si combina con i dati tratti dalle altre scienze sociali», ma rimarca, dall’altra, che «assegnare alla comparazione il ruolo di scienza empirica» (come, osserva l’A., la intenderebbe Sacco) è operazione non scevra di difficoltà.
D.M. Hussey Freeland, Law & Science. Towards a Unified Field, University of San Francisco Law Research Paper, 2014, p. 2. Sulle “sfide culturali” dell’interdisciplinarietà, v. pure J.B. Balkin, ‘Interdisciplinarity as Colonization’, in Washington and Lee Law Review, n. 53, 1996, p. 949.
J. Husa, op. cit., p. 29. Nel pensiero del comparatista finlandese, «[t]here appears to be the problem of epistemic incommensurability between law and other disciplines. […] Trained lawyers are not normally competent sociologists, linguists, economists, anthropologists or historians». In termini più diretti, «when a lawyer steps outside of the boundaries of law, the risk of misunderstanding concepts or methods taken from other fields may materialise».
Significativamente, M. Tushnet, Interdisciplinary Legal Scholarship, op. cit., p. 910 afferma che la «legal scholarship that displays the form of interdisciplinarity» spesso non risulta essere «truly interdisciplinary». In definitiva, l’interdisciplinarietà è tanto «popular» quanto «problematic»: B. Pike, ‘Interdisciplinarity: Popular and Problematic’, in Publications of the Modern Language Association of America, 2006, p. 295.
Cenni impliciti alla natura “sovversiva” della comparazione si rintracciano già in occasione del Congresso di Parigi del 1900, quando Raymond Saleilles e Édouard Lambert, critici nei confronti della visione del diritto che fa perno sulla mera interpretazione del testo legislativo, parlano di «méthode historique» come strumento di evoluzione dei diritti nazionali. Per Saleilles, addirittura, la comparazione con metodo storico è un primo passo verso un progressivo avvicinamento delle legislazioni che porti ad un diritto “universale” dei popoli civilizzati. R. Saleilles, ‘Rapport’, in Congrès International de Droit Comparé, op. cit., pp. 143, 180. V. anche É. Lambert, ‘Rapport’, ibid., p. 32. Le riflessioni di Saleilles e Lambert si inseriscono nel più ampio movimento dei c.d. juristes inquiets. Questi ultimi, nel rilevare un insanabile conflitto tra la concezione tradizionale del diritto e lo stato della società degli anni in cui scrivono (1880-1920), propongono un’ottica alternativa fondata sulla tendenza immanente del diritto ad armonizzarsi con la realtà sociale, e pongono le basi per una visione della comparazione come elemento, se non proprio di sovversione, perlomeno di rottura degli schemi. La vocazione sovversiva del diritto comparato è poi compiutamente teorizzata da George P. Fletcher in termini di capacità del diritto comparato di porre in essere una lettura critica rispetto al «conventional legal thinking». Grazie all’apertura interdisciplinare del diritto comparato – in grado di dialogare con scienze come la filosofia e la linguistica – è possibile vedere «from the outside» i sistemi giuridici nazionali, scardinando l’ortodossia teorica dominante e aprendo al cambiamento. G.P. Fletcher, ‘Comparative Law as a Subversive Discipline’, in American Journal of Comparative Law, n. 46, 1998, p. 683. Anche Horatia Muir-Watt elabora una serie di riflessioni sulla funzione sovversiva del diritto comparato. La studiosa francese riconduce la sovversione alle « fortes doses d’interdisciplinarité » di cui il diritto comparato si nutre, rifiutandosi di « réduire le droit à un savoir purement livresque ou textuel, pour le contextualiser dans un environnement culturel, idéologique, linguistique, social, et institutionnel » : H. Muir-Watt, ‘La fonction subversive du droit comparé’, in Revue internationale de droit comparé, 2000, p. 503. Invero, già nel 1995 Pierre Legrande richiamava il potenziale sovversivo della comparazione, che nell’essere « interdisciplinaire » è pure « indisciplinée »: P. Legrand, ‘Sur l’analyse différentielle des juriscultures’, in Revue internationale de droit comparé, 1995, p. 1053, p. 1061. Sebbene sviluppate in ambito privatistico, le teorie sul diritto comparato sovversivo non hanno mancato di impegnare le riflessioni dei comparatisti pubblicisti. Nel disquisire di metodo in occasione del ventennale di questa Rivista, Lucio Pegoraro e Roberto Toniatti, pur ponendosi nei rispettivi contributi su posizioni parzialmente diverse in merito a talune questioni metodologiche, concordano sul fatto che la funzione sovversiva, nel senso di cui sopra, rappresenti una delle aspirazioni cui il costituzionalista comparatista deve tendere. L. Pegoraro, ‘Il diritto pubblico comparato in cerca di una identità’, in DPCE Online, 1/2020, 811; R. Toniatti, ‘Per una concezione aperta, plurale ed eterodossa del metodo comparato nel diritto costituzionale’, ibid., p. 831.
L’espressione si deve, come risaputo, a E. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, 1994.
Come è ben noto, la radice sovversiva del diritto aveva infatti trovato terreno fertile al di là dell’Atlantico. È opinione piuttosto diffusa che l’approccio statunitense allo studio del diritto non solo risulti particolarmente attento alla dimensione politica delle questioni oggetto di esame, ma sia altresì caratterizzato da un’indubbia attitudine pluralista (Law and …), oltreché fortemente connotato da un taglio rigorosamente pragmatico. Parallelamente, e sempre secondo la medesima linea di pensiero, gli studi europei, dalla fine del XIX secolo, sarebbero invece rimasti ingessati in una concezione del diritto dottrinaria, sostanzialmente riconducibile alla scuola positivista, ferma sull’impostazione classica statalista e, in via di principio, contraria ad ibridazioni tra le scienze giuridiche e gli altri saperi. Sul punto, e con particolare attenzione alla formazione dei pratici e più in generale degli operatori del diritto, v. M. Reimann, ‘The American Advantage in Global Lawyering’, in Rabels Zeitschrift für ausländisches und internationales Privatrecht, n. 78(1), 2014, p. 3. Questa visione – sostanzialmente basata sulla contrapposizione netta tra l’attitudine degli studiosi formatisi al di là dell’Oceano e, secondo Reimann, adeguatamente preparati ad affrontare i complessi problemi che il mondo presenta nell’età della globalizzazione, e i giuristi del Vecchio Continente, eternamente segnati dal positivismo e nazionalismo giuridico, perciò meno attrezzati alla pratica interdisciplinare – non convince Michele Graziadei. Quest’ultimo, nel confutare la tesi di Reimann, da un lato, sottolinea le nuove direzioni abbracciate nella ricerca anche dagli studiosi europei (peraltro influenzati dagli studi dei colleghi nordamericani) e, dall’altro, invita a considerate le ibridazioni derivate dalle esperienze sovranazionali, quali l’Unione europea e il Consiglio d’Europa, con i rispettivi corpi normativi, interpretati secondo le letture della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo.
M. Graziadei, ‘Navigare nel diritto incerto. La dottrina e le nuove frontiere dell’educazione del giurista in Europa’, in G. Peruginelli, S. Faro (cur.), La dottrina giuridica e la sua diffusione, Torino, 2017, p. 93. A chiusura del dibattito, sembra significativo, già dal titolo, assai evocativo, il lavoro di M. Reimann, ‘European Advantages in Global Lawyering’, in Rabels Zeitschrift für ausländisches und internationales Privatrecht, n. 82(4), 2018, p. 885.
G. Bognetti, ‘Diritto costituzionale comparato. Approccio metodologico’, op. cit., p. 22.
A tal proposito, Alessandro Somma osserva un ridimensionamento della portata sovversiva della comparazione nella pratica, notando che in «massima parte i cultori del diritto comparato non hanno davvero messo in discussione i fondamenti dell’ordine sociale costituito, così come si potrebbe invece ritenere considerando la loro volontà di alimentare uno studio critico del fenomeno diritto». A. Somma, ‘Comparare è giudicare’, in G. Resta, A. Somma, V. Zeno-Zencovich (cur.), op. cit., p. 232. Il fattore dogmatico, quindi, parrebbe non totalmente messo da parte. Cfr. L. Pegoraro, ‘Cultura e culture’, op. cit., che afferma al proposito che invero «niente o quasi hanno a che vedere con la comparazione» coloro la cui ricerca si interessa «solo o quasi solo di diritti dogmatici».
V. J. Husa, op. cit., spec. nota 9, p.ti 2 e 4.
Nell’editoriale di apertura del secondo anno di vita della Rivista, Anthony F. Lang Jr., Mattias Kumm, Antje Wiener, James Tully e Miguel Poiares Maduro riflettono sulle sfide che dirigere un «explicitly interdisciplinary journal» comporta, per osservare che l’approccio interdisciplinare «should not be undertaken because of a vague sense of intellectual pluralism»; al contrario, esso è preteso dal «global constitutionalism». In termini più articolati, «… this is an interdisciplinary journal not simply because we want to promote interdisciplinarity in this area of studies but because we believe interdisciplinarity is the only way to fully understand the issues involved»: A.F. Lang et al., ‘Editorial. Interdisciplinarity: Challenges and Opportunities’, in Global Constitutionalism, n. 2(1), 2013, p. 1. Da questa prospettiva, risulta di tutta evidenza il collegamento funzionale tra il pragmatico stimolo esterno e il nobile impulso interno.
Impresa che, forse, potrebbe essere resa meno ardua da una (ambiziosa) riforma dei corsi universitari in senso genuinamente dialogante tra diritto e altre discipline. Anche tale operazione, però, non è scevra da difficoltà sia teoriche sia pratiche. Sul punto, G. Pascuzzi, L’insegnamento del diritto comparato nelle Università italiane, Trento Law and Technology Research Group – Research Paper no. 1, 2010, p. 67. Cfr. supra, nota 69.
Un significativo esempio è offerto dalla riflessione sulla sovranità globale di P.G. Monateri, Dominus Mundi. Political Sublime and the World Order, Oxford, 2018, in cui con il diritto si fondono conoscenze storiche, politologiche, mediche, letterarie, artistiche in senso lato (dalla scultura alla pittura) e persino esoteriche.
Su questa linea evolutiva, si potrebbe compiere un passo ulteriore rispetto a quanto teorizzato da Alessandro Pizzorusso, che descriveva l’interdisciplinarietà come confronto dei risultati derivanti dall’applicazione di diverse metodologie (v. supra, nota 7), così da avvicinarsi alle tesi di Jan M. Smits, secondo cui lo studio interdisciplinare del diritto non può prescindere, né dal punto di vista ontologico né da quello pratico, dagli aspetti dottrinali, che vanno però combinati con le acquisizioni interdisciplinari. J.M. Smits, ‘Law and Interdisciplinarity: On the Inevitable Normativity of Legal Studies’, in Critical Analysis of Law, n. 1, 2014, p. 75. Cfr. anche R. Scarciglia, Scienza della complessità e comparazione giuridica nell’età dell’asimmetria, in questa Rivista, fascicolo speciale, 2019, pp. 701, 708, che afferma che l’interdisciplinarietà «non implica […] sostituzione dei metodi utilizzati nell’approccio comparativo sino al ventesimo secolo, quanto piuttosto la loro integrazione con nuovi approcci e il confronto all’interno e all’esterno della disciplina».
R. van Gestel, H.-W. Micklitz, M. Poiares Maduro, op. cit., p. 14, mettono in guardia dal rischio, implicito nell’interdisciplinarietà, di “amateurism”, laddove si abbandoni il rigore dell’approccio dottrinale; del resto, però, la dimensione dogmatica non può prescindere dall’apertura a utili contaminazioni di altre scienze, se si vogliono affrontare in modo adeguato i problemi complessi del mondo in continua evoluzione. Cfr. J.M. Smits, ‘Law and Interdisciplinarity’, op. cit., che sottolinea le interazioni tra lo studio interdisciplinare del diritto, sia a fini di ricerca sia di insegnamento, e la «inevitable normativity» derivante dalla postura dottrinale. V. anche M.-C. Ponthoreau, op. cit., pp. 57-58, che afferma la non totale incompatibilità tra l’approccio c.d. funzionalista e quello interdisciplinare.
A. Riles, ‘From Comparison to Collaboration: Experiments with a New Scholarly and Political Form’, in Law and Contemporary Problems, n. 78, 2015, p. 147. La comparatista statunitense mette in evidenzia la crisi che il diritto comparato attraversa ormai da tempo e nota la “virata” verso il metodo collaborativo; sulla base di questa constatazione, la studiosa sviluppa un’interessante riflessione critica sia sulle opportunità sia sui rischi di quest’ultimo approccio.
A. Gambaro, P.G. Monateri, R. Sacco, ‘Comparazione giuridica’, op. cit., p. 57, rilevano che, pur potendo (e dovendo) il giurista dialogare con le altre scienze, non può «rifiutare la scientificità del metodo […] nella ricerca del dato giuridico», poiché «il ricorso a tutte queste discipline non lo garantirà contro nessuno degli errori, cui egli vada soggetto, nell’accertamento dei dati giuridici di base».
V. nota 61.