BLP

2023/0

Susanna Bozzi

Il Dialogo tra Lex e Ius Impregna le Righe Della Storia e Della Letteratura. Confronto o Conflitto? Dipende Dallo Sfondo

This paper addresses the relationships between lex and ius; in particular, when the constitutional order enters a crisis, due to a situation of emergency. Firstly, the analysis assesses how ius and lex interact. Secondly, through Antigone, it deals with the idea of a droit naturel, prior to positive juridical determinations. The conclusion tackles with the spectrum of losing part of the scope of rights and freedoms, in the name of the fight against crises, leading to challenges to contemporary constitutionalism in the regulation of emergency and to a judicial debate about limits of juridical positivism in the state of exception.

Introduzione: Legge e Diritto, il Loro Rapporto nell’Ordine Si Fa più Tormentato Nella Crisi

Distinti, ma connessi, il diritto (ius) esiste senza la legge (lex), ma la legge non esiste senza il diritto.

Neppure in un sistema pensato come di soli comandi (ordini e leges) può farsi a meno dello ius, che le leggi presuppongono o producono. Quelle stesse leggi che non vivono senza il diritto e che, spesso, lo codificano senza esaurirlo.

Affermare che quod non est in lege non est in iure significa asserire il falso. Infatti, l’interpretazione della legge non è mera analisi del linguaggio: lo ius entra nella lex, co-determinando il sillogismo. Posto che lo ius preesiste sempre alla lex, l’interprete applica intuitivamente le nuove leggi, in virtù del proprio pesante bagaglio di conoscenza dello ius, senza il quale sarebbe “un lettore smarrito di novità”.[1] Il diritto positivo, ossia il diritto posto dal legislatore umano, ius positum, rappresenta il tessuto normativo di una lex, integrandola. Inoltre, i principi sono attratti nella dimensione dello ius, perché servono alla lettura delle leges, rendendole comprensibili o legittime, orientandole verso contenuti non puramente prescrittivi di comandi, ma descrittivi di rationes.

Nessuno studia legislazione, tutti studiano diritto, ius, il contenuto vigente della lex e la base per la soluzione di ogni conflitto. Le tre componenti del diritto sono il sistema, l’ermeneutica e i principi. Si tratta, rispettivamente, del sistema giuridico, entro cui la lex si inserisce, dell’ermeneutica della lex, prodotto normativo risultante dall’interpretazione della legge, e dei principi e dei diritti fondamentali, nazionali e sovranazionali.

I suddetti rapporti intercorrenti tra iura e leges sono destinati a operare in un contesto normale, di ordinarietà e, conseguentemente, a entrare in crisi al verificarsi del caso dell’eccezionalità.

Il giuramento di fedeltà che il giurista ha prestato al potere legislativo e alle leggi che ne sono frutto è costretto a cedere di fronte allo stato di eccezione, che vede confliggere lex e ius.

I poteri di emergenza e i regimi di eccezione, cioè di alterazione degli assetti democratici maturi e della dialettica autorità-libertà, sono tesi alla riconquista della situazione di normalità mediante il conflitto tra lex e principi di diritto, essendo necessario, in un contesto di eccezionalità, eccepire, non nel senso di addurre in contrario, ma nel senso di opporre, andare contro, derogare, nel più violento significato di trasgredire, alle libertà fondamentali, comprimendole.

Ebbene, nella storia delle democrazie contemporanee, mai sono state adottate restrizioni all’esercizio delle libertà personali di portata talmente ampia e generalizzata come durante la crisi causata dalla pandemia di Covid-19.

In prospettiva comparata, il denominatore comune delle misure decise dai governi delle democrazie avanzate al fine di contenere la diffusione del contagio, così tutelando il diritto alla salute (colorato della sua più intensa sfumatura di diritto alla vita), è rappresentato dalla limitazione o sospensione di libertà e diritti costituzionalmente garantiti: la libertà di circolazione e di riunione nonché quella religiosa (quest’ultima con ricadute sulla libertà di culto).

L’emergenza sanitaria ha significativamente inciso sulle libertà personali, soffocandole, così configurandosi nell’ultimo stress test cui lo Stato di diritto è stato sottoposto.

L’approccio silente abbracciato dall’ordinamento italiano, scevro di una disciplina di “governo” dello stato emergenziale, è sfociato nel susseguirsi di una serie di decreti-legge del Governo[2] che rinviavano a Decreti del solo Presidente del Consiglio dei Ministri, la cui natura attuativa è stata asfissiata dalla opprimente genericità dei primi. Tali decreti-legge erano vere e proprie “deleghe in bianco” rivolte ai D.P.C.M. che, anziché attuare, integravano la fonte del rinvio, così risultandone intaccata la legittimità delle limitazioni delle libertà personali e dei diritti costituzionalmente garantiti.

Posto che i D.P.C.M. non devono essere convertiti in legge e che non si tratta di decreti-legge emanati dal Capo dello Stato, la conseguente esclusione, rispettivamente, dei controlli parlamentari e del controllo di legittimità costituzionale è accompagnata dall’impossibilità di un sindacato di costituzionalità, precluso in ragione della natura di fonte di rango secondario da cui il D.P.C.M. è tipicamente connotato.[3]

La sfida che si delinea nel frangente emergenziale è assicurare la tenuta democratica delle istituzioni, salvaguardando la separazione dei poteri, così da garantire l’operatività dei controlli, parlamentari e giurisdizionali, che, quantomeno ex post, consentano la riaffermazione dei diritti compressi.

La sua natura spinge il potere esecutivo ad abbandonarsi alle braccia dell’impellenza dell’emergenza del momento. Tuttavia, il potere giudiziario deve reagire e riportare l’ago della bilancia in equilibrio nella delicata operazione di compensazione degli interessi in conflitto o, meglio, di quelli che si pongono in distonia e contrapposizione in quelle circostanze eccezionali che, per natura, sono fuori dalla regola. Occorre sottolineare che la loro straordinarietà[4] non sempre si accompagna alla loro imprevedibilità: infatti, se così fosse, costituzioni e legislazioni dell’emergenza non esisterebbero. Inoltre, l’esistenza di un termine (emergenza, eccezione) si accompagna all’esistenza (an) del relativo fenomeno, come la vasta e rapida diffusione della malattia infettiva Covid-19, emergenza pandemica fronteggiata con piani sanitari mirati.

Lo stesso può dirsi relativamente alle emergenze dal sapore politico, quali la minaccia terroristica di matrice jihadista, anch’essa non inimmaginabile nell’an, la quale ha aperto, a partire dall’11 settembre 2001, l’era dell’insicurezza, durante la quale, in nome della lotta al terrore, importanti diritti e libertà personali sono stati sacrificati.

Il Binomio Ius vs. Lex Nella Saga dei Labdacidi: La Prospettiva Giuridica Trae Spunto dai Temi Squisitamente Letterari in cui È Attratta. Da Sofocle a Brecht

Antigone è un mito o, meglio, un “mito in progress”, cioè un racconto che ha perso ogni connotato e riferimento storico per divenire emblema del conflitto tra coscienza individuale e ragione di Stato, tra legge morale e legge positiva.

Se ne rammenta sinteticamente la trama. Fanciulla dalla fede incontaminata nella santità dei vincoli di sangue, Antigone, per rendere gli onori funebri a suo fratello Polinice, contravviene all’editto del re Creonte, che vietava la sepoltura di Polinice, caduto da traditore portando le armi contro la propria patria, Tebe. Antigone dà sepoltura a Polinice di nascosto, ma viene scoperta e si difende, affermando di aver seguito non le leggi umane, bensì quelle divine. Dopo averla condannata a morte, Creonte recederà dai suoi provvedimenti, ma sarà troppo tardi: lo attende un destino di dolore, che prende le fila dal suicidio di Antigone.

Ora, l’intento di questo paper è analizzare le ragioni, sia giuridiche sia umane, per cui, nella sua figura tragica, Antigone è elevata, come sopra si ricordava, a emblema.

Posto che il comportamento umano è un intreccio di ambigue motivazioni e la teorica inconciliabilità delle due esigenze, l’una di restare entro i limiti disegnati dall’ordinamento e l’altra di spingersi oltre, irrompendo nella dimensione morale, non è di facile soluzione, Antigone non è propriamente l’eroina della giustizia, della coerenza morale assoluta e della ribellione al sopruso, ma è la più alta immagine dell’umanità sofferente, ove la legge si riveli strumento di massima ingiustizia.

Per Antigone è impossibile che una legge emanata da un potere terreno possa avere più forza delle leggi divine, il cui carattere eterno ne garantisce saldezza e immutabilità. Perciò, di fronte a queste ultime non può esistere alcuna preoccupazione proveniente dal mondo degli uomini.

Sulla scena, i ragionamenti della fanciulla e del re, le cui parole dovrebbero trarre forza dal fatto di essere espressione dell’intera comunità, implicano considerazioni di fondamentale importanza per le loro conseguenze politico-culturali, destinate a divenire il fulcro di un dibattito inesauribile.

Per Antigone, trasgredire significa non rispettare le norme divine, eterne e immutabili, trasgressione che si realizzerebbe negando il diritto di sepoltura al cadavere del fratello; per Creonte, invece, trasgredire vuol dire infrangere le regole contingenti da egli stesso stabilite.

Ed è proprio dietro alle posizioni divergenti dei due che si cela il destino di entrambi: la morte per Antigone e la solitudine assoluta per Creonte. Ma anche, in prospettiva diacronica, il binomio e, quindi, lo scontro tra legge divina e legge umana; tra prevalere o meno del diritto familiare (legato alla nascita, alla stirpe, alle relazioni di consanguineità) sul diritto civile, sul diritto della comunità; tra norma di origine divina e norme stabilite dall’uomo in un particolare contesto socio-politico e, dunque, continuamente modificabili; infine, tra legge scritta e legge non scritta.

L’inconciliabilità delle rispettive posizioni è insanabile, un solco invalicabile, tale da condurre i protagonisti alla rovina.[5]

Il canto che accompagna il coro sulla scena, destinato a celebrare la fine dello scontro che insanguina Tebe e che ha portato alla reciproca uccisione Eteocle e Polinice, è seguito dalla comparsa di Creonte in veste ufficiale. Dal discorso del re trapelano la preoccupazione di ispirarsi a principi corretti, al di sopra di qualsivoglia interesse di parte, in nome del superiore bene della comunità, e la convinzione di aver proclamato l’editto con cui ha dato ordine di seppellire Eteocle e di lasciare insepolto Polinice proprio in base a tali principi. Una sicurezza destinata a sgretolarsi nel corso dell’azione scenica, erosa da una graduale e costretta presa di consapevolezza, da parte di Creonte, che i principi affermati con tanta baldanzosa sicurezza sono espressione di decisioni arbitrarie e tiranniche, contrarie alle norme tradizionali (del sangue, della famiglia, della divinità), tanto consolidate da non poter essere cancellate dal potere politico. Antigone non mette in discussione la legittimità in sé dell’intervento del sovrano, che ha le sue ragioni nel potere che egli riveste, ma il contrasto tra il decreto promulgato, sentito come legge dello Stato, e le superiori leggi divine, non scritte, non soggette a modificazioni ed eternamente valide. Sulla base della convinzione che non si è tenuti a rispettare una legge umana che non poggi su queste norme immutabili, la fanciulla accetta la condanna e la morte, rivendicata come unica scelta dignitosa. Dall’inestricabile intreccio dei singoli fili di riflessione che la tessitura della tragedia, nella sua profondità semantica, lascia scorgere, con particolare riferimento alle parole di Antigone, affiora la polisemia del termine νόμος, che è la norma basata sulla tradizione e, quindi, non scritta, ma anche la norma scritta, ove diviene legge dello Stato.

Antigone, ritratta nella dimensione giuridica della consapevolezza del proprio agire, è la protagonista di una vicenda paradigmatica, al cui contenuto universale bisogna attingere per rispondere alle domande del giurista del presente. Infatti, riprendendo il pensiero degli storici Vernant e Vidal-Naquet, sebbene la tragedia sia “tutt’altra cosa da un dibattito giuridico”, è altrettanto vero che ha per oggetto l’uomo, “che vive di persona questo dibattito”.[6] Così, in un complesso di circostanze ambigue e contrastanti, scevro del carattere della univocità, Antigone è il baricentro di un sistema di forze: ivi la somma dei momenti delle singole forze è nulla, in quanto punto di annientamento di due verità e di due giustizie. Le leggi non scritte di Antigone, i principi etici sentiti dall’individuo come imprescindibili, da un lato. Le leggi scritte di Creonte, le regole del potere politico, dall’altro. Antigone si rifiuta di rispettare una regola di cui non condivide la giustificazione etica, in quella tensione che, in ogni tempo, intercorre tra applicazione della regola di diritto e valutazione che non ne riconosce il fondamento etico.

Ed ecco che prende forma l’idea di come, già nella tragedia greca, venivano trattati i dilemmi attuali del diritto, insistentemente riaffioranti nelle società moderne, nonostante l’evoluzione giuridica e le garanzie costituzionali sancite nelle Costituzioni contemporanee e da cui la giustizia è amministrata.

Dilemmi che prendono le mosse dalla tragedia o, meglio, dalla drammaticità della condizione umana nel quadro della tragic choice, colorata da una molteplicità di modi di resistere alla legge ingiusta. Creonte ha il dovere di governare la città e, se tollerasse che le sue leggi venissero infrante, per di più da un membro della sua famiglia, farebbe prevalere il legame di sangue, in quella che è la nuova città-Stato, connotata proprio dal primato della polis sulla famiglia.

La sua autorevolezza di sovrano ne sarebbe irrimediabilmente compromessa: ed ecco la centralità del problema del buon governo della città, intimamente connesso alla capacità di Creonte di occuparsene, debellando il male che la affligge, da un lato, garantendo l’ordine civile, dall’altro.

La mutevole e artificiale legge pubblica dello Stato, impersonata da Creonte, si scontra con il diritto profondo e stabile dei legami sociali, impersonato da Antigone. Da un lato, la forza innovatrice di una città-Stato fondata su leggi che furono proclamate per valere universalmente, che esigono ubbidienza uniforme e incondizionata, spezzano l’unità dei legami interpersonali e familiari, travolgono sentimento paterno, fraterno e filiale, ignorano la contiguità del sangue e sono garantite dal re, unico e supremo legislatore. Dall’altro, le radici tradizionali della città, lo ius non scritto e incrollabile, che non è né di ieri né di oggi, ma che vive da sempre; lo ius – che vale per le cerchie umane vincolate da comunanza di sangue, con al centro la famiglia, e si richiama alla struttura gentilizia originaria della polis – è radicato nei legami vitali e, quindi, nel culto dei morti, ed è cementato dal senso di fedeltà.

Da una parte, la silenziosa sacralità del diritto; dall’altra, la verbosa esteriorità della legge. Ius contro lex: due assoluti che si scontrano.

Nell’Antigone non c’è una verità da conoscere. Tutto è tragicamente chiaro. La questione giuridica riguarda la soluzione di un conflitto tra la legge umana, posta da Creonte a garanzia dell’ordine nella città, e la legge divina, che risale a comunità fondate sui legami di sangue. L’arena dell’Atene di Sofocle, la cui vita si estende lungo tutto il V secolo a.C., vede l’antica legge degli avi e la nuova legge della città come i suoi contendenti: nulla dà alla lex un primato sullo ius e nulla assicura più allo ius il primato in un secolo di modernizzazione politica e istituzionale.

Da un lato, Antigone è sostenitrice di una legge non scritta e immutabile, ius, che si consolida nella famiglia, legata da comunanza di sangue, dal culto degli stessi morti, dalla stessa concezione di onore e di fedeltà. Dall’altra, Creonte è sostenitore della forza modernizzatrice della lex, prodotto principale della città-Stato, che proclama orgogliosamente leggi che investono tutta la polis – indipendentemente dai legami di sangue – e che pongono il bene della città, interpretato dal sovrano e svincolato da ogni legame privato, al di sopra di ogni altro interesse. L’insolubile drammaticità del conflitto tra assoluti non può che esaurirsi con la resa o con la soppressione di uno dei contendenti.

Facendo un passo avanti nel tempo e nella storia, la suggestività che intrinsecamente connota l’eroina sofoclea è declinata dal poeta Bertold Brecht nell’omonima opera Antigone, il cui prologo conduce il pubblico nella Germania di Hitler. L’Antigone disegnata dal drammaturgo Brecht (nel 1948) ha alle spalle gli orrori del nazismo, le carneficine del secondo conflitto mondiale, l’Olocausto, la lotta partigiana, la guerra civile e i testimoni dell’uno e dell’altro fronte. La figlia di Edipo e i Vecchi della città si ribellano al loro Führer, Creonte, e alle vite umane che vengono sacrificate in guerra con durezza e cinismo.

Ma gli stessi che decidono di contestare e prendere le distanze da quella politica, ora tanto odiata, ne erano stati fiancheggiatori al pari della grande borghesia industriale tedesca che, per interesse, aveva appoggiato l’espansionismo hitleriano. Quando tutto vacilla, sono gli stessi “divoratori di carne” a mostrare disgusto per “il grembiule insanguinato del cuoco”, per la mano violenta del signore della guerra, che ne aveva sostenuto privilegi e benessere.[7]

Hitler ha ucciso la Costituzione di Weimar, una delle più avanzate del Novecento, che si stagliava sullo sfondo di una Germania lacerata dalla Grande Guerra, rimanendone estranea. Lo straordinario laboratorio intellettuale, oltre che costituzionale, era avulso dal contesto sociale tedesco, a tal punto che la sua lunghissima lista di diritti e la centralità dell’individuo da essa proclamata hanno avuto vita breve, 15 anni circa, per poi essere uccise da quel divoratore di diritti umani, la cui lex imbrigliava la Germania nazista, fondandola sulla negazione dell’individuo quale centro di imputazione dei diritti o, per meglio dire, sull’individuo che non esiste, se non in quanto funzionale all’ideologia dello Stato.

L’uomo sospeso tra norme civiche e norme celesti (tale è nell’Antigone sofoclea) diviene uomo-pasto della legge del Führer e, al contempo, divoratore degli altrui diritti umani e libertà, calato nel contesto di uomo che mangia uomo, in quella “caccia all’ebreo”,[8] che venne rivestita di valore costituzionale.

Torna feroce il conflitto tra lex e ius, tra legge e principi del diritto. Ove mediante l’impiego della lex vengano assorbiti nello ius, al rango di principi, gli esatti opposti dei valori e dei diritti umani, il risultato è la morte “civile” dell’uomo o, meglio, dell’uomo ebreo, che diventa “cosa” da bistrattare, sopprimere e umiliare. La mortificazione dei diritti umani diventa possibile in virtù di una disciplina discriminatoria che vede l’ebreo-uomo qualificato come ebreo-cosa, denudato di diritti e libertà.

Il tutto in forza di una legislazione umiliatrice della dignità umana, che ne legittima la negazione, in ragione di odio etnico e sadismo xenofobo, pilastri irrazionali in una cornice di sovranità statale.[9]

Collocandoci nelle democrazie mature che si basano sullo Stato di diritto, continua l’inarrestabile e indefinito percorso lungo il limite da tracciarsi tra la cogenza della legge e le situazioni eccezionali, sostando sul punto nel quale la legge si applica disapplicandosi, ossia lo stato di eccezione.

Lo stato di eccezione è una misura di governo di emergenza, che attua una sospensione dell’ordine giuridico vigente, innestandosi quale rottura della validità delle norme ordinamentali.

Lo stato di eccezione si risolve in un paradosso: in un vuoto giuridico. Questo vuoto è variamente riempito dagli ordinamenti moderni, in particolare in Italia ricorrendo alla legislazione eccezionale ad opera del Governo (derogando al principio liberal-democratico della suddivisione dei poteri, per cui la facoltà di emanare leggi spetta al Parlamento), attraverso decreti di immediata attuazione che, per conservare la propria forza normativa, devono essere ratificati dal Parlamento.

La teoria dello stato di eccezione prende forma nel periodo storico in cui vige il regime nazista, che ne è il più eclatante esempio. Dopo essere divenuto cancelliere, con il suo decreto dell’incendio del Reichstag, Hitler – a ciò legittimato dall’articolo 48 della Costituzione della Repubblica di Weimar – sospende i sette articoli della stessa che riguardano le libertà personali, di espressione, di associazione, di stampa e la privacy dei cittadini. Così, il Terzo Reich può dirsi un lungo stato di eccezione, durato 12 anni. Insigne giurista, nonché consulente giuridico del Terzo Reich, Carl Schmitt sostiene che, configurandosi il regime instaurato da Hitler nel 1933 in uno stato di eccezione, la sospensione dei suddetti diritti deve condurre o al ripristino della Costituzione vigente nella sua piena operatività o alla creazione di una nuova Costituzione.

Secondo l’illustre giurista, la condizione di eccezione non può durare ad libitum, motivo per cui, in quegli anni, egli stesso elabora i lineamenti di una nuova Costituzione che, però, di fatto, non vedrà mai la luce. Infatti, il regime nazista opterà proprio per il tertium non datur: non abolirà mai la Costituzione della Repubblica di Weimar, che quindi resterà in vigore, ma in forma sospesa (come previsto dall’art. 48 della suddetta Costituzione, ossia la regolamentazione dello stato di eccezione).

Lo stato di eccezione è una sorta di pharmacon, nella sua ambigua accezione di rimedio e veleno.

Rimedio, in quanto vuoto legislativo che deve essere colmato, così rivitalizzando il diritto positum, incapsulato negli ordinamenti scritti, a completamento del quadro normativo. Veleno, perché la legge, depositata nei segni della scrittura, è in continuo conflitto con la propria natura perversa: l’emergenza richiede che nuove norme vengano prodotte (lex) disapplicando temporaneamente le norme costituzionali (ius), in una sorta di autonegazione del diritto. Basti riflettere sugli Stati Uniti che, in risposta agli attentati terroristici di Al-Qāʿida, si sono confrontati con le più forti limitazioni della libertà personale della storia recente: è proprio un atto del Congresso[10] ad autorizzare il Presidente degli Stati Uniti ad adottare all necessary and appropriate force per combattere il terrorismo internazionale. Si pensi, a tal proposito, al campo di prigionia di Guantánamo,[11] in cui sono state poste in essere atroci violazioni sistematiche delle Convenzioni di Ginevra sui prigionieri di guerra, quali detenzioni a tempo indefinito senza precedente processo, e perpetrate torture su prigionieri sospettati di essere connessi al terrorismo di matrice islamica.

Emerge, così, il tema della difficile convivenza tra il principio della libertà personale e quello della sicurezza. L’articolo 13 della Costituzione italiana sancisce che “la libertà personale è inviolabile”[12], fintanto che non leda altri diritti fondamentali, come specificato dalla dottrina giuridica. Il medesimo articolo garantisce che quella libertà sia limitata solo quando è assolutamente indispensabile e secondo procedure rigorosamente definite ex lege.

L’articolo 13 si ispira al principio dell’habeas corpus che, in generale, stabilisce che nessuna autorità pubblica può arrestare arbitrariamente un cittadino, ma ha l’obbligo di rendere note le motivazioni giuridiche in base alle quali una persona è privata della propria libertà.

È proprio l’habeas corpus a essere stato, di fatto, soffocato e abolito dai provvedimenti che il governo statunitense ha adottato dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, con il dichiarato obiettivo di salvare le vite dei cittadini americani.

Per esempio, lo USA PATRIOT Act,[13] approvato nello stesso anno, consentiva di incarcerare fino a sei mesi una persona sospettata di terrorismo senza l’autorizzazione di un giudice e nel 2006 i sospettati di attività terroristiche sono stati privati della possibilità di appellarsi contro una detenzione ritenuta ingiusta. Tali provvedimenti hanno indotto molti a ritenere che, con i pretesti della lotta al terrorismo e della difesa della sicurezza, esse potessero preludere a una più generalizzata restrizione delle libertà civili dei cittadini.

Uno Sguardo Conclusivo a Scelte e Strumenti dell’Ordinamento Giuridico, Nella Morsa di Quesiti di Cruciale Difficoltà

L’ordinamento affronta le crisi adattando le proprie regole tradizionali all’eccezionalità; infatti, alla situazione anomala, che genera fratture nell’ordine costituzionale del sistema, l’ordinamento risponde prevedendo un modo di operare diverso da quello ordinario, ma pur sempre basato su quanto previsto nel quadro costituzionale.

Infatti, la vera novità delle Costituzioni moderne, ossia rigide, è non solo (e non tanto) di aver allargato il catalogo delle libertà e dei diritti a quelle che sono le esigenze proprie dello Stato sociale, bensì di aver potenziato gli strumenti di garanzia anche dei “vecchi” diritti.

Ovviamente, l’intero sistema giuridico potrebbe essere letto in chiave di protezione dei diritti, ma la Costituzione ha introdotto congegni specificamente orientati a questo obiettivo.

Ormai, la legislazione ha invaso tutti gli ambiti dell’esistenza umana, anche i più privati e per lungo tempo refrattari a norme esteriori, come quelli concernenti le relazioni affettive tra le persone, la famiglia o i rapporti tra genitori e figli. L’incessante sviluppo tecnologico pervade la vita dell’uomo, a cui si sono da sempre dedicate, in via esclusiva, le regole della natura e delle scienze naturali, e concorre all’incremento delle leggi: la lotta contro le malattie, la procedura di donazione e uso degli organi umani, il contrasto alle forze di invecchiamento e alla morte aprono nuovi sterminati orizzonti all’intervento della legge. Di pari passo, le nuove tecniche della comunicazione a distanza, della raccolta e dell’elaborazione dei dati pongono problemi di protezione dei diritti umani e delle libertà personali che richiedono leggi sempre nuove.

Sul quadro dell’eccezionalità si staglia la necessità di tutelare le istituzioni democratiche: la lex non può divorare i principi dello ius che la riempiono di significato e, ove si corra il rischio che la legge divenga strumento di massima ingiustizia, confliggente con i principi di diritto, entra in scena la Corte Costituzionale, nella sua autorevolezza e indipendenza.

Il sindacato di legittimità delle leggi, di cui la Corte Costituzionale è investita, gioca un ruolo decisivo per la tutela dei diritti fondamentali. Infatti, la Corte Costituzionale è chiamata a controllare che la legislazione ordinaria – che ha il compito di attuare i principi costituzionali in tema di diritti – non travalichi e comprima le garanzie dei diritti fondamentali sino ad annullarle. Ciò significa che l’effettivo contenuto dei diritti e delle libertà, nonché la concreta individuazione delle garanzie costituzionali, dipendono dalle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale. Dunque, non è un’esorbitanza di realismo dire che i diritti fondamentali sono quello che la Corte dice che essi siano.[14]

Quindi, la scelta primaria nella composizione e nel bilanciamento degli interessi spetta al legislatore ed è una scelta che può arrivare al vaglio della Corte Costituzionale, alla base delle cui decisioni sta il giudizio di ragionevolezza, che consente alla Corte di ricostruire la ratio legis della norma assunta a tertium comparationis. Il ragionamento trilaterale in cui si snoda il giudizio di ragionevolezza è contenuto nel confronto tra le regole, quella impugnata e la norma assunta a confronto, e il principio di cui esse sono espressione. La Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi nell’ottica di riportare coerenza in un determinato segmento dell’ordinamento, ove il legislatore deroghi alla regola secondo cui, una volta scelto il principio (o, per meglio dire, le finalità) da sviluppare con le sue disposizioni, tale principio andrebbe sviluppato con coerenza tale da evitare di escludere dalla fattispecie situazioni in essa ragionevolmente sussumibili e di includervi situazioni ragionevolmente distinguibili.

In conclusione, i rapporti tra legge e principi del diritto non sono di facile definizione né soluzione, ove entrino in conflitto e la legge diventi strumento di iniustitia. Nondimeno, la domanda che sorge spontanea e che anima il dibattito giuridico s’interroga su quando la legge – volta a regolare l’eccezione e, quindi, ove essa stessa sia costretta a porsi in un rapporto di rottura con il normale ordine costituzionale (con una sospensione delle caratteristiche tipiche dello Stato di diritto) – superi il punto di equilibrio tra la regolazione dello stato di emergenza, in nome della sicurezza, e la compressione, a essa strumentale, dei diritti e delle libertà (si pensi alla situazione di emergenza sanitaria recentemente vissuta, alla guerra, al terrorismo, che hanno delineato contesti di disordine, nel senso di turbamento dell’ordine istituzionale e costituzionale, inevitabilmente intaccando i diritti e le libertà individuali necessari per il suo ripristino). Un’anomia non può essere iscritta nell’ordine giuridico, pertanto il nostro ordinamento non disciplina i vari volti di una situazione emergenziale.

Al fine di colmare tale lacuna normativa, occorre che le legislazioni di eccezione si concretizzino in provvedimenti efficaci e adeguati alla portata del rischio e per il tempo necessario a raggiungere gli obiettivi indispensabili a garantire la sicurezza dei cittadini.

Poiché trattasi di una situazione di urgenza normativa, la soluzione potrebbe individuarsi nel ricorso alla decretazione di urgenza, in particolare al decreto-legge, atto avente forza di legge che non solo è pronto a diventare tale, con la conversione operata dal Parlamento entro 60 gg., ma soggiace anche al vaglio di costituzionalità da parte del giudice delle leggi.

In tal modo, le libertà e i diritti umani, il cui sacrificio è inevitabile nello stato di eccezione, verrebbero modellati, in senso restrittivo, da un atto normativo di pronta emanazione, soddisfacendo una duplice esigenza: operare con rapidità, a fronte dell’urgenza di dare ordine al disordine – limitando, così, temporalmente il sacrificio – e provvedervi con atto soggetto a controllo di legittimità costituzionale.

Quest’ultimo aspetto è di primaria importanza, in quanto la regolazione dell’emergenza è un gioco di bilanciamenti: da un lato, si staglia una libertà (espressione dello ius) da contenere con la lex, affinché, dall’altro lato, un ulteriore diritto, risultato prevalente dal bilanciamento, possa essere preservato.

Tutti i ragionamenti contenuti in questo paper ruotano attorno alla domanda su quale sia il punto fino al quale possono accettarsi delimitazioni o, addirittura, sacrifici così pesanti dei diritti e delle libertà di cui il substrato valoriale del nostro ordinamento si colora. Essi diventano impellenti e drammatici nel momento in cui le istituzioni (nazionali e sovranazionali) devono interfacciarsi con situazioni di crisi, in cui tutti i presidi e le garanzie del positivismo giuridico sono costrette ad allentarsi e i giuristi, interpreti del diritto, avvertono il carico della loro responsabilità ermeneutica.

1

M. Donini, ‘Iura et Leges. Perché la Legge non Esiste Senza il Diritto’, in Rivista Trimestrale di Diritto Penale Contemporaneo, n. 3, 2019.

2

A titolo esemplificativo, D. L. 23 febbraio 2020, n. 6, in materia di “Contenimento e Gestione dell’Emergenza Epidemiologica da Covid-19” e D. L. 25 marzo 2020, n. 19, in materia di “Misure Urgenti per Fronteggiare l’Emergenza Epidemiologica da Covid-19”.

3

A. Vedaschi, ‘Il Covid-19, l’Ultimo Stress Test per gli Ordinamenti Democratici: uno Sguardo Comparato’, in DPCE Online, n. 43(2), 2020.

4

In questo contesto, il termine è sinonimo di eccezionalità.

5

R. Rossi et al., Erga Mouseon, Paravia, Torino, 2015.

6

M. Cartabia, L. Violante, Giustizia e Mito. Con Edipo, Antigone e Creonte, Il Mulino, Bologna, 2018.

7

Sofocle, D. Susanetti (a cura di), Antigone, Carocci Editore, Roma, 2012.

8

É. Zola, ‘J’Accuse…’, L’Aurore, 13 gennaio 1898.

9

R. Calvo, L’Ordinamento Criminale Della Deportazione, Editori Laterza, Roma-Bari, 2023.

10

The Authorization for Use of Military Force (AUMF) (2001).

11

Ricordato come un “buco nero giuridico” (M. Strauss, The Leasing of Guantanamo Bay, Praeger Security International, Westport, 2009).

12

Art. 13 Cost.

13

Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act (2001).

14

R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto Costituzionale, 21 ed., G. Giappichelli Editore, Torino, 2020.