BLP

2023/0

Giovanni Tuzet

Sui limiti del positivismo giuridico: un chiarimento

“essere superati sul piano scientifico è – giova ripeterlo – non solo il nostro destino, di noi tutti, ma anche il nostro scopo”

(Max Weber)

1. Introduzione

A chi capita sentir parlare di positivismo giuridico e dei suoi limiti può accadere di credere che istanze morali ed emergenze politiche di varia natura costituiscano fattori in tal senso; ossia, fattori che provano i limiti del positivismo giuridico e la sua incapacità di fronteggiare tali istanze ed emergenze. Per esempio, che si sollevino da varie parti istanze sulla maternità surrogata e la sua immoralità (per i molti proibizionisti) o invece la sua opportunità (per i pochi libertari) dimostrerebbe che il positivismo non offre risposte adeguate alle questioni etiche che agitano un corpo sociale e i suoi arti politici. Oppure, che in ogni emergenza di carattere politico qualcuno ricordi con gravità la formula di Schmitt – “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”[1] – farebbe pensare che il positivismo cede il passo alle necessità fatte valere, di volta in volta, da chi ha il potere di farlo, sospendendo questa o quella garanzia, obliterando la legalità in qualche sua forma.

Ritengo e intendo dimostrare che tali impressioni rischiano di essere fuori luogo e che le relative credenze sarebbero in larga misura ingiustificate, pur se è vero che il diritto positivo riflette ampiamente le istanze morali del tempo e le relative preoccupazioni di carattere politico. Per dimostrare quello che sostengo, sarà necessario fare alcune distinzioni in merito a ciò che intendiamo per “positivismo giuridico”. Questo permetterà di chiarire i termini del problema. Dei due fasci di questioni – istanze morali ed emergenze politiche – scelgo di occuparmi del primo, nel solco di quella filosofia giuridica tradizionalmente dedita alla riflessione sui rapporti fra diritto e morale; l’altro fascio di questioni, quelle su sovranità e potere, mi sembra possa essere più fruttuosamente affrontato dagli studiosi di diritto pubblico e dai filosofi o scienziati della politica, o comunque con un approccio giusfilosofico distinto da quello adottato qui.

Il lavoro procederà semplicemente in questo modo: una volta distinte alcune varietà di positivismo giuridico (§ 2) e in sintesi alcune varietà di giusnaturalismo (§ 3), discuterò più precisamente della connessione fra diritto e morale (§ 4), per poi concludere sui limiti del diritto positivo e della sua concezione (§ 5).

Prima di entrare nel merito di tali questioni, mi si lasci notare un’altra cosa – un fenomeno che trovo per certi versi curioso. Molta letteratura sul “decisionismo” politico-giuridico adotta una specie di mistica della decisione come atto dispositivo, un risolvere netto, un “tagliare via” (dall’etimo latino della parola). Ma c’è anche, in ambito economico-filosofico, una sofisticata teoria e modellistica della “decisione razionale”, dove contano le ragioni. Dagli uni la decisione è assunta come esercizio di potere e produzione di effetti le cui ragioni non richiedono necessariamente trasparenza (anzi, sembra che l’autorità di certe decisioni venga indebolita dall’esporne le ragioni); dagli altri la decisione è assunta come atto responsabile, consapevole, che risponde a ragioni e di cui si rende conto. Nei discorsi sul positivismo giuridico capita spesso che il carattere “posto” del diritto sia associato, magari in modo non esplicito, all’atto che decide e pone, senza bisogno di indicare ragioni – come nel modello ottocentesco del legislatore che statuisce senza motivare, senza curarsi di addurre un perché. In verità, non c’è nulla di necessario in questo: da un lato, si può riconoscere il diritto positivo come tale e svilupparne al tempo stesso un’analisi critica (per es. con un modello di legislazione razionale che aiuti a qualificare certe norme e decisioni come inadeguate o persino irrazionali); dall’altro, le decisioni adottate in un sistema giuridico retto da una costituzione o documento fondante che incorpori principi non possono non misurarsi ed essere misurate con il grado di realizzazione di tali principi, o almeno con la loro compatibilità rispetto al quadro valoriale in cui si iscrivono. In questo senso la mistica della decisione sembra cedere terreno al vaglio della razionalità.

2. Varietà di positivismo

Occorre ricordare che già Norberto Bobbio, difronte alle critiche più o meno pertinenti che venivano rivolte al positivismo, insisteva sulla necessità di chiarire i termini della questione. Una celebre tripartizione da lui proposta – in lezioni del 1960/61 pubblicate anni dopo – è quella di “positivismo giuridico” come 1) metodologia, 2) teoria e 3) ideologia del diritto[2]. Prenderò avvio da questa idea di Bobbio per ampliarne i termini alla luce di dibattiti più recenti.

Come metodologia, il positivismo consiste nell’atteggiamento avalutativo del giurista nello studio del diritto. Si tratta di un’accezione di “positivismo” legata alla tradizione scientifica e all’ideale di uno studio oggettivo e avalutativo dei fenomeni. Il diritto positivo è posto dall’uomo e può incorporare o meno valori morali[3]; chi lo studia deve renderne conto per quello che è, sostiene il positivista metodologico, indipendentemente dal suo apprezzamento di tale diritto o dalla sua adesione a tali valori. Aggiungendo alla metodologia scientifica gli strumenti che la filosofia del linguaggio ha elaborato nel corso del Novecento, il positivista metodologico avverte sempre in primis la necessità di chiarire il piano a cui si collocano determinati enunciati. “Vietato fumare”, ad esempio, può essere un enunciato che pone tale divieto, o un ordine rivolto a specifici destinatari, ma può essere anche un enunciato che riporta un divieto esistente, senza costituirlo esso stesso e magari senza condividerne il merito. La dicotomia generalmente adottata per rendere conto di tale distinzione è quella fra prescrivere e descrivere: certi enunciati hanno una funzione prescrittiva, altri una funzione descrittiva, o lo stesso enunciato può avere talora una funzione e talora l’altra, a seconda del parlante, dei destinatari e del contesto d’enunciazione[4]. E naturalmente ci possono essere descrizioni di prescrizioni, ossia enunciati che descrittivamente rendono conto di norme. Ora, il positivismo come metodo di studio del diritto raccomanda di esporre il diritto com’è, senza alterarne la descrizione con un punto di vista valutativo. Come dovrebbe essere ovvio, un conto è produrre norme, un altro è conoscerle. Lo studioso rende conto del diritto com’è, descrivendolo, spiegandone la genesi, predicendone gli sviluppi. Dopodiché nulla vieta allo studioso di esprimere anche un punto di vista critico e valutativo, individuando le carenze del diritto esistente ed elaborando magari delle proposte di riforma. Quello che preme al positivista metodologico è che sia chiaro quando si fa una cosa e quando l’altra.

A dire il vero non sono rari ai nostri giorni i lavori in cui la metodologia positivista viene riformulata o apertamente criticata, sostenendo che non c’è possibile conoscenza senza una componente valoriale. Non è questa la sede per discutere i dettagli del problema[5]. Mi limito a dire che la critica è accettabile se i valori di cui parla sono a loro volta metodologici (per es. l’accuratezza e la coerenza di una descrizione). Non mi pare ci siano ragioni per includere sotto questo profilo valori di natura politica o morale. Come dovrebbe essere pacifico, si può rendere conto di un sistema giuridico totalitario senza essere totalitaristi. E la disapprovazione per tale sistema non dovrebbe indurre lo studioso a negarne l’esistenza. Il proverbiale struzzo nasconde la testa sotto la sabbia; noi, spesso, minimizziamo le cose che non ci piacciono o siamo addirittura tentati di negarle; lo studioso obbiettivo rende conto di esse per come sono, e svolge il prezioso compito di produrre e trasmettere conoscenza (verrebbe da dire che è la sua “missione”, ancor più che “professione”)[6].

Come teoria, il positivismo afferma in generale che il diritto è un prodotto umano – non un insieme di norme rinvenibile in natura o un ordine indipendente da intenzioni e atti umani. Nella letteratura più recente l’idea è stata specificata in termini di “artefatti”: il diritto è uno specifico artefatto umano, prodotto per le finalità dell’organizzazione sociale[7]. I bisogni degli individui e le finalità di un gruppo possono ben essere indipendenti dal diritto – come il bisogno di sedere è indipendente dalle sedie, che vengono appunto costruite in tale prospettiva, per sostituire la pietra o il tronco[8] – e il diritto come artefatto vi risponde in quanto realizzazione umana, certamente perfettibile ma in qualche senso indispensabile alla convivenza e allo sviluppo di una società tramite la coordinazione delle azioni[9].

In un’accezione meno generale e più storicamente connotata, il diritto positivo è quello posto dallo Stato, che è forma suprema di organizzazione sociale e principio di ordine territoriale. Le teorie positiviste così connotate hanno alcuni tratti rilevanti: (a) il diritto è inteso come comando coattivo (imperativismo) o come norma sanzionata (normativismo); (b) la legge è la fonte primaria del diritto (legalismo); (c) almeno idealmente, l’ordinamento giuridico è unitario, chiuso, coerente, completo.

In tale accezione più stretta, è abbastanza palese che il positivismo può attraversare una crisi e rivelarsi inadeguato. Per il semplice fatto che il mondo cambia e i sistemi giuridici non sono più gli stessi. Non ripeterò i discorsi sull’internazionalizzazione, sull’ibridazione fra sistemi, sulla rete di principi sovranazionali e costituzionali che vincolano i decisori, sulla resistenza che alcune parti politiche oppongono ancora a tali processi storici[10]. Mi preme solo notare che la crisi del positivismo in questa accezione storicamente connotata non coinvolge il positivismo come teoria più generale del diritto quale prodotto o artefatto umano.

Come ideologia, invece, il positivismo afferma che al diritto posto è dovuta obbedienza. È una tesi normativa, che in termini generici rischia di essere una banalità. È più interessante, pur se indulge alla pedanteria, vederne le specificazioni. In una versione forte, il positivismo come ideologia afferma che il contenuto del diritto è sempre giusto, indipendentemente dai suoi effetti e dalla sua funzione sociale; quindi il diritto positivo deve essere sempre obbedito. Si parla a riguardo di “legalismo etico” e si fa risalire l’idea a Hobbes. Si può dubitare dell’opportunità di qualificare come positivista un’idea del genere, che per molti rimane comunque inaccettabile. In una versione moderata della tesi, il contenuto delle statuizioni positive non è sempre giusto, ma esse realizzano in ogni caso dei valori sociali, come ad esempio l’ordine e la sicurezza; quindi il diritto deve essere obbedito anche se ingiusto[11]. L’idea è talvolta attribuita a Bentham, altri la fanno risalire a Kant. In una versione debole, infine, la tesi afferma che il diritto positivo deve essere obbedito a meno che non violi in maniera grave i principi della morale. Si noti che, a differenza di quanto può sostenere un giusnaturalista a questo riguardo, anche il diritto gravemente ingiusto rimane diritto per il positivista. La nota “formula di Radbruch”[12] è sul punto distinta, poiché per essa il diritto intollerabilmente ingiusto cessa di essere (autentico) diritto, mentre per il positivista in questione esso rimane tale pur venendo meno il dovere di obbedienza.

Ora, i presunti limiti del positivismo diventano cosa ben diversa a seconda di come intendiamo l’espressione “positivismo giuridico”. Il positivismo come metodo non dice praticamente nulla su cosa il diritto sia, né si esprime sulla sua obbligatorietà; il positivismo come teoria non dice con che metodo rendere conto del diritto né si pronuncia sulla sua obbligatorietà (oltre a scontare, come abbiamo visto, una certa debolezza nella sua accezione storicamente connotata); il positivismo come ideologia è debitore nei confronti del positivismo come metodo e come teoria per quanto riguarda la conoscenza e la concezione del diritto, ma si pronuncia sulle condizioni a cui il diritto ha una propria obbligatorietà distinta dall’obbligatorietà morale. Peraltro, il positivista ideologico nella versione moderata dell’idea può riconoscersi nella massima attribuita solitamente a Bentham: obbedisci puntualmente, critica liberamente. Ciò significa che l’obbligatorietà del diritto non si accompagna per definizione alla sua giustizia o eccellenza etica. Anche il positivista che ne riconosce l’obbligatorietà può svilupparne una critica politico-morale.

3. Varietà di giusnaturalismo

In un recente volume sulla storia del giusnaturalismo dal 1900 al 2020, Francesco Viola distingue “tre rinascite” di tale scuola di pensiero: la prima a inizio Novecento, come reazione all’idea che il diritto venga prima della società (a questa rinascita contribuiscono a vario titolo approcci come il neotomismo, l’antiformalismo, gli appelli al “diritto vivente”, il movimento del “diritto libero”); la seconda nel secondo dopoguerra, come reazione agli orrori del totalitarismo e del nazismo in particolare; la terza con l’opera di autori come Dworkin e Alexy (più antipositivisti che giusnaturalisti) sul ruolo dei principi, e più in generale con i processi di decodificazione, costituzionalizzazione e internazionalizzazione dei fenomeni giuridici[13].

Inoltre, Viola distingue oggi tre orientamenti giusnaturalisti che qualifica rispettivamente in questo modo: 1) epistemologico, 2) ontologico e 3) ideale[14]. Il primo è riferito all’opera di Finnis e si caratterizza per l’importanza attribuita al concetto di diritto, un “concetto pieno”, suscettibile di realizzazione completa nei “casi centrali” di diritto e di realizzazione parziale nei “casi periferici”. La legge ingiusta è legge, per Finnis, ma non è pienamente conforme al concetto di diritto o a ciò che occorre per averne un caso centrale. Finnis, come noto, accompagna tale concettualizzazione con una teoria delle inclinazioni umane e dei beni fondamentali. Il secondo orientamento è attribuito a particolari teorie contemporanee, da un lato quella di chi riconduce le caratteristiche fondamentali del diritto a caratteristiche morali (Moore), dall’altra quella di chi, focalizzandosi sulla natura del diritto, cerca di elaborarne una teoria giusnaturalista accogliendo però l’idea che il diritto sia un artefatto (Crowe); quest’ultima idea è come abbiamo detto tipicamente positivista, ma il giusnaturalista di questa specie pone la propria enfasi sulle necessità e le intenzioni da cui il diritto come artefatto nasce e si sviluppa. Il terzo orientamento è attribuito in particolare a Fuller e si caratterizza per l’adozione di un concetto minimo di diritto (più precisamente, una concezione della sua “moralità interna”) e per l’articolazione di tale concetto in una serie di “aspirazioni”, ossia ideali che il diritto mira a realizzare e realizza in gradi diversi[15].

Tesi di Viola è che il giusnaturalismo può essere così configurato come una teoria del diritto, piuttosto che una sua concezione deontologica dal punto di vista morale; e che in questo senso conta il ruolo della ragion pratica, piuttosto che la derivazione di precetti giuridici dalla natura umana o dalla pretesa “natura delle cose”; senza tralasciare il fatto che il diritto positivo in quanto insieme di testi necessita di interpretazione e che l’ermeneutica giuridica ne ha mostrata la natura relazionale e valoriale[16].

Al netto delle differenze pur significative fra tali orientamenti e teorie, si deve rilevare che nel dibattito recente a livello internazionale si usa dire che vi è un tratto comune a tutte le posizioni qualificate come giusnaturaliste: esso consiste nel ritenere che vi sia una connessione necessaria fra diritto e morale[17]. A seconda dell’orientamento e della specifica teoria variano i modi in cui si intende tale connessione, ma non viene meno l’idea che si tratti di una connessione caratterizzata da necessità. Una connessione solo contingente non sarebbe bastevole a giustificare una posizione giusnaturalista. Riprendiamo allora il filo del discorso confrontando giuspositivismo e giusnaturalismo sotto questo profilo e cercando di chiarire il quadro con un minimo di formalizzazione.

4. Quale connessione fra diritto e morale?

A grandi linee il giusnaturalismo sostiene la tesi della connessione necessaria fra diritto e morale, mentre il positivismo sostiene la tesi della loro separabilità. Mi pare di poter aggiungere che, quando si pone il tema in questi termini, si sta facendo teoria del diritto piuttosto che un discorso sul metodo con cui conoscere il diritto o sulla sua obbligatorietà. Richiamando in questo senso la tripartizione di Bobbio, si tratta di teoria piuttosto che di metodologia o ideologia. Infatti la tesi positivista della separabilità si basa su una concezione detta talvolta “convenzionalista”: il diritto positivo è frutto di convenzioni e pratiche sociali. In altri termini è la tesi delle fonti sociali del diritto. Il diritto ha fonti sociali, non morali. Ci possono ovviamente essere istanze etiche che si traducono in diritto, ma ciò avviene attraverso un processo sociale e una serie di atti o convenzioni senza di cui la morale non potrebbe diventare diritto. La morale non può ipso facto diventare diritto.

In virtù di questo il teorico positivista nega che vi sia una connessione necessaria fra diritto e morale e ammette al più che possano esservi connessioni contingenti fra tali sfere. Peraltro, se da un lato la morale può influenzare il diritto (portando per es. alla depenalizzazione dell’adulterio) dall’altra il diritto può influenzare la percezione morale di certi atti o condotte (se è vero che per es. la liceità giuridica del divorzio ha influito sulla sua percezione morale). Ciò non toglie che rimangano casi controversi ove le tensioni fra diritto e morale restano vive (per es. in tema di aborto). Tornando al tema teorico della connessione, si deve osservare in verità che una forma più radicale di positivismo non parla di separabilità fra diritto e morale, bensì di separazione. L’argomento consiste nel sottolineare il ruolo delle fonti sociali del diritto e nel sostenere che, se un’istanza morale diviene realtà giuridica, non lo diviene in quanto moralità ma in quanto contenuto di atti che producono diritto. In questo senso la dimensione sociale e autoritativa del diritto fa sì che a rigore non ci sia mai una connessione (diretta) fra diritto e morale. Si usa attribuire al “giuspositivismo inclusivo” la tesi della separabilità e al “giuspositivismo esclusivo” la tesi della separazione[18]. In ogni caso il positivista nega che vi sia una connessione necessaria fra diritto e morale. Il quado può dunque sintetizzarsi in questo modo:

(1) c’è sempre connessione fra diritto e morale;
(2) c’è talvolta connessione fra diritto e morale;
(3) non c’è mai connessione fra diritto e morale.

Le tre tesi corrispondono a queste tre posizioni teoriche:

(1) giusnaturalismo;
(2) giuspositivismo inclusivo;
(3) giuspositivismo esclusivo.

Donando un minimo di formalizzazione a queste idee, possiamo utilizzare i quantificatori impiegati in logica (dove “∀” significa “per ogni”, “∃” significa “esiste un”) e dire quanto segue (dove “C” sta per una connessione con la morale, “x” sta per una norma o un sistema giuridico, “~” sta per la negazione):

(1) ∀x Cx
(2) ∃x Cx
(3) ~ ∃x Cx.

Secondo (1), per ogni x si dà una connessione di x con la morale; secondo (2), esiste un x tale che x ha una connessione con la morale; secondo (3), non esiste un x tale che x ha una connessione con la morale. Di nuovo, (1) è la tesi giusnaturalista – che pare più plausibile se “x” sta per un sistema giuridico che ha comunque una qualche connessione con la morale, poiché sembra difficile sostenere che per qualsiasi norma giuridica vi sia una connessione con la morale. E ancora le tesi del giuspositivismo inclusivo ed esclusivo sono rappresentate rispettivamente in (2) e (3). A chi ha sensibilità logica non sfuggirà che (2) è implicata da (1), assumendo che esista diritto: se per ogni sistema giuridico c’è una connessione con la morale (e assumiamo che esistano sistemi giuridici), allora sarà vero che esiste un sistema che è connesso con la morale. Ma il giuspositivista inclusivo accetta (2) e non (1) poiché ritiene che esistano anche sistemi giuridici (o norme giuridiche) incompatibili con la morale[19].

Ancor meglio si può formalizzare il quadro ricorrendo agli operatori utilizzati in logica modale (dove “□” significa “necessariamente”, “◊” significa “possibilmente”):

(1) □ (∀x Cx)
(2) ◊ (∃x Cx)
(3) □ (~ ∃x Cx).

In questa formalizzazione le tre tesi si leggono così: (1) necessariamente, per ogni x si dà una connessione di x con la morale; (2) possibilmente, esiste un x tale che x ha una connessione con la morale; (3) necessariamente, non esiste un x tale che x ha una connessione con la morale[20]. Chiarire questo costituisce senza dubbio un progresso teorico. Ma di nuovo le cose possono risultare diversamente a seconda che “x” stia per una singola norma giuridica o per un sistema nel suo complesso. E molto ruota intorno a ciò che intendiamo per “connessione” fra diritto e morale.

Se ad esempio la connessione necessaria viene intesa come una forma di “inclusione”, se ne può configurare una versione debole in questo modo (dove “D” sta per diritto, “M” per morale, “I” per la relazione di inclusione, “” per una relazione condizionale, “&” per la congiunzione):

x (Dx → ∃y (My & Ixy)).

La formula si legge così: per ogni x, se x è diritto, allora esiste un y tale che y è morale e x include y. L’idea dell’inclusione è resa invece in maniera forte in questo modo:

y (My & ∀x (Dx Ixy)).

La formula si legge così: esiste un y tale che y è morale e per ogni x, se x è diritto, allora x include y. Questa versione lascia intendere che c’è una stessa forma di moralità inclusa in ogni forma di diritto[21]. La precedente versione lascia intendere invece che per ogni forma di diritto c’è una forma di moralità (non necessariamente la stessa) che il diritto include.

In un diverso e più semplice modo di scriverlo (dove x è diritto, y è morale):

xy (Ixy) (versione debole);
yx (Ixy) (versione forte).

Si noti inoltre che la prima formula non si impegna ontologicamente all’esistenza di diritto; essa dice che, se c’è diritto allora questo include una morale. Mentre la seconda formula afferma che esiste una morale e che questa è inclusa dal diritto (se si dà diritto).

Tutto ciò, si badi, non dice ancora chi abbia ragione (se il giuspositivista e quale, o se il giusnaturalista e quale); ma almeno ha la virtù di chiarire in una certa misura i termini di una questione altrimenti confusa e in balìa di pregiudizi. Credo che un chiarimento di questa specie abbia molto valore sotto un duplice profilo, quello di contrastare dispute inutili e quello di migliorare la nostra comprensione dei modi in cui diritto e morale si relazionano. Non si tratta ovviamente dell’ultima parola, ma si tratta di un avanzamento rispetto a posizioni generiche e preconcette.

5. Conclusione

Come dovrebbe essere chiaro per quanto detto sopra, il positivismo come teoria non è a rigore una posizione sull’obbligatorietà del diritto; su ciò si pronuncia il positivismo come ideologia, per utilizzare la tripartizione di Bobbio. Pertanto, ai limiti del positivismo in una delle sue accezioni fanno da complemento le altre accezioni. Questo è particolarmente vero del rapporto fra il positivismo come teoria e come ideologia del diritto, su cui vorrei concludere.

Riprendendo con alcune variazioni un esempio proposto da Eugenio Bulygin[22], immaginiamo che un ufficiale ordini ai suoi soldati di torturare un prigioniero. Se un primo soldato accetta di eseguire l’ordine senza avvertire alcun conflitto fra esso e la morale, allora tale soldato esemplifica la posizione del positivismo ideologico nella sua versione forte. Se un secondo soldato accetta di eseguire l’ordine pur avvertendone l’immoralità, e lo accetta per un senso di disciplina o per non minare la struttura gerarchica di cui è parte, allora tale soldato esemplifica la posizione del positivismo ideologico nella sua versione moderata. Se un terzo soldato, per ragioni morali, non accetta di eseguire l’ordine pur riconoscendolo come dotato di autorità giuridica, tale soldato esemplifica la posizione del positivismo ideologico nella versione debole. Se infine un quarto soldato, per ragioni morali, non accetta di eseguire l’ordine e nega che si tratti di autentico diritto, allora tale soldato esemplifica la posizione del giusnaturalista (à la “formula di Radbruch”)[23].

Un aspetto interessante della seconda e terza posizione così esemplificate è che, pur riconoscendo l’autorità del diritto, l’agente non ne predica la moralità. Per il primo soldato, invece, il diritto è ipso facto giusto e doveroso, mentre per il quarto l’ordine dell’ufficiale non è diritto in quanto intollerabilmente ingiusto. Credo che analoghe considerazioni si possano sviluppare in tema di emergenze politiche e misure “eccezionali”. Giusto per darne un’idea, una misura eccezionale che – pur adottata da un’autorità idonea a produrre diritto – violasse in maniera intollerabile la moralità (o l’ordine costituzionale) non verrebbe considerata come diritto dal giusnaturalista, mentre il positivista ideologico di tipo debole si rifiuterebbe di darvi seguito pur riconoscendone la natura giuridica, allorché il positivista ideologico di tipo moderato vi darebbe seguito pur esprimendo disapprovazione (e auspicando magari che un decisore di ultima istanza rilevi i vizi di tale misura) mentre il positivista ideologico di tipo forte non batterebbe ciglio.

Ora, il positivismo ideologico nelle varianti moderata e debole ha la virtù di riconoscere il diritto come tale senza predicarne automaticamente l’eccellenza o bontà etica e l’obbligatorietà. Questo è in sintonia con il principio attribuito di norma ad Austin (il giurista, non il filosofo del linguaggio): l’esistenza del diritto è una cosa; i suoi meriti o demeriti un’altra. Ossia, una cosa è il diritto com’è, un’altra è come dovrebbe essere. Questo significa che (a) il diritto non cessa di essere tale anche quando non corrisponde a come dovrebbe essere e (b) non diventa tale solo perché dovrebbe esserlo. Naturalmente questo approccio è debitore nei confronti del positivismo teorico per quanto riguarda una concezione del diritto e nei confronti del positivismo metodologico per quanto attiene alla sua conoscenza. Nell’insieme ne risulta un limite significativo: non necessariamente il diritto positivo è moralmente giusto. Ciò può cospirare virtuosamente con l’anelito morale a modificare il diritto ingiusto (come peraltro, cambiando prospettiva, può esservi un anelito economico a modificare il diritto inefficiente).

I meriti di questo giuspositivismo sono così il contraltare dei suoi limiti: da un lato, esso permette di identificare e conoscere ciò che è diritto; dall’altro, non confondendo diritto e morale, favorisce la critica morale del diritto. Se infatti il diritto non potesse divergere dalla morale, allora non avrebbe senso parlare del diritto per come esso dovrebbe moralmente essere[24].

Riferimenti bibliografici

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1

C. Schmitt, 1972, Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna: p. 33, l’affermazione apre uno scritto originariamente pubblicato nel 1922, poi nel 1934 in seconda edizione. Schmitt afferma anche, si noti, che “non ogni competenza inconsueta, non ogni misura o ordinanza poliziesca di emergenza è già una situazione d’eccezione: a questa pertiene piuttosto una competenza illimitata in via di principio, cioè la sospensione dell’intero ordinamento vigente” (ivi: pp. 38-39).

2

N. Bobbio, 1996, Il positivismo giuridico, Giappichelli, Torino: p. 129 ss. Cfr. N. Bobbio, 1965, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano; v. anche U. Scarpelli, 1965, Cos’è il positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano, nonché R. Guastini, 2014, La sintassi del diritto, sec. ed., Giappichelli, Torino: p. 20 ss. e M. Barberis, 2014, Introduzione allo studio del diritto, Giappichelli, Torino.

3

Si noti che dire questo presuppone già una teoria del diritto; infatti, come intendo mostrare, i tre significati di “positivismo” si articolano in un quadro più completo delle singole prospettive.

4

Su questi aspetti logico-linguistici si può vedere P. Comanducci, 1992, Assaggi di metaetica, Giappichelli, Torino: p. 23 ss.

5

Ne ho parlato in G. Tuzet, 2010, Dover decidere. Diritto, incertezza e ragionamento, Carocci, Roma: p. 199 ss. Da ultimo, v. A. Schiavello, 2023, Conoscere il diritto, Mucchi, Modena (che, pur da positivista, adotta un atteggiamento critico nei confronti della metodologia asseritamente avalutativa del positivismo classico).

6

Cfr. M. Weber, 1971, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino: p. 3 ss. (da conferenze del 1918 pubblicate un anno dopo). Weber parla di “vocazione per la scienza” e del fatto che, “per l’uomo nella sua umanità, nulla ha valore di ciò che non può fare con passione” (ivi: p. 13); vi aggiunge però che “ogniqualvolta l’uomo di scienza mette innanzi il proprio giudizio di valore, cessa la perfetta intelligenza del fatto” (ivi: p. 30).

7

Cfr. L. Burazin, K.E. Himma, e C. Roversi, (a cura di) 2018, Law as an Artifact, Oxford University Press, Oxford, nonché L. Burazin, K.E. Himma, C. Roversi, e P. Banaś, (a cura di), 2022, The Artifactual Nature of Law, Edward Elgar, Cheltenham. Molti aggiungono che il diritto è un artefatto “astratto” (v. anche nota seguente).

8

Un’avvertenza: a fini di esemplificazione si usa spesso richiamare la sedia come artefatto, ma è chiaro che, se è un artefatto, il diritto è un artefatto con caratteristiche molto diverse da quelle di una sedia (ne parlo in G. Tuzet, 2018, A Strange Kind of Artifact, in L. Burazin, K.E. Himma e C. Roversi (a cura di), “Law as an Artifact”, Oxford University Press, Oxford, pp. 217-238).

9

Sul tema della coordinazione, v. anche C. Bicchieri, 2006, The Grammar of Society: the Nature and Dynamics of Social Norms, Cambridge University Press, Cambridge e Guala, F. 2016, Understanding Institutions. The Science and Philosophy of Living Together, Princeton University Press, Princeton.

10

Per alcuni il mutamento dei paradigmi giuridici conduce a parlare di “postdiritto” (così G. Zaccaria, 2022, Postdiritto. Nuove fonti, nuove categorie, il Mulino, Bologna).

11

O più precisamente: ogni diritto, anche il più ingiusto, promuove alcuni valori apprezzabili come l’ordine e la sicurezza e, dunque, nel decidere se obbedire o meno a una norma ingiusta bisogna effettuare una valutazione morale complessa; cfr. A. Schiavello, 2010, Perché obbedire al diritto? La risposta convenzionalista ed i suoi limiti, ETS, Pisa. Se tale valutazione si traduce nel dire che non va obbedito il diritto gravemente ingiusto, allora si tratta del positivismo ideologico che nel testo qualifico come “debole”.

12

K. Engisch, 1970, Introduzione al pensiero giuridico, a cura di A. Baratta, Giuffrè, Milano, la presenta così: “il diritto positivo, assicurato dalla normazione e dalla forza, ha la precedenza anche quando sia ingiusto ed inopportuno nel suo contenuto, salvo che il contrasto di esso con la giustizia raggiunga una misura talmente intollerabile che il diritto, in quanto diritto ingiusto, debba cedere il passo di fronte alla giustizia”. Più ampiamente, v. S.L. Paulson, 2023, La filosofia del diritto di Gustav Radbruch, a cura di N. Bersier Ladavac, P. Chiassoni e A. Sardo, Mimesis, Milano-Udine: pp. 111-112, p. 141 ss. (che nota come le formule di Radbruch fossero per l’esattezza due: quella riguardante i provvedimenti intollerabilmente ingiusti – rispetto a cui la certezza del diritto cede alla giustizia – e quella riguardante i provvedimenti che, deliberatamente, non tentano neppure di perseguire la giustizia e pertanto sono non-diritto, puro arbitrio). Cfr. G. Radbruch, 2021, Filosofia del diritto, a cura di G. Carlizzi e V. Omaggio, Giuffrè, Milano (ed. italiana di un testo del 1932) e G. Carlizzi, 2022, Continuità o discontinuità nella filosofia del diritto di Radbruch? La tesi del “giusnatupositivismo ermeneutico”, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, vol. 52: pp. 275-309.

13

F. Viola, 2021, 1900-2020. Una storia del diritto naturale, Giappichelli, Torino: p. 5 ss.

14

Ivi: p. 125 ss.

15

Su Fuller, si veda più ampiamente A. Porciello, 2016, Princìpi dell’ordine sociale e libertà individuale. Saggio sulla Jurisprudence di Lon L. Fuller, ETS, Pisa.

16

Cfr. F. Viola, 2021, 1900-2020. Una storia del diritto naturale, Giappichelli, Torino: pp. 93-94, p. 108, p. 161 in particolare.

17

Per un’analisi più dettagliata della questione, v. B. Celano, 2021, Lezioni di filosofia del diritto. Costituzionalismo, Stato di diritto, codificazione, diritto naturale, positivismo giuridico, sec. ed. ampliata, Giappichelli, Torino: p. 33 ss. Fra le altre cose, Celano distingue forme di giusnaturalismo biologico, teologico e razionale, per poi presentarne una versione pluralista (ivi: p. 47 ss., p. 321 ss.).

18

Cfr. A. Schiavello e V. Velluzzi, 2005, Il positivismo giuridico contemporaneo. Una antologia, Giappichelli, Torino: p. 220 ss.; M. Barberis, 2014, Introduzione allo studio del diritto, Giappichelli, Torino: p. 40 ss.; J.J. Moreso  2020, Lo normativo. Variedades y variaciones, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid: p. 33 ss. Raz è stato il principale esponente del positivismo esclusivo; Coleman è stato un difensore di spicco del positivismo inclusivo.

19

In questo senso una più esaustiva caratterizzazione del positivismo inclusivo è (2´) (∃x Cx) & (∃x ~ Cx).

20

In virtù dell’interdefinibilità degli operatori logici le tre idee possono ricevere delle formulazioni alternative ma logicamente equivalenti. Per es. (3) può essere resa così: necessariamente, per ogni x non c’è una connessione fra x e la morale.

21

Più chiaramente, andrebbe in tal senso formalizzata l’idea che esiste una e una sola morale e che ogni diritto include questa morale.

22

L’esempio è in E. Bulygin, 2004, ¿Está (parte de) la filosofía del derecho basada en un error?, in “Doxa”, vol. 27: pp. 25-26. Peraltro, Bulygin distingue il tema dell’obbligatorietà morale da quello dell’applicabilità giuridica (ivi: p. 20 ss.) e sostiene che le domande sulla “normatività” del diritto sono sostanzialmente questioni morali, non di teoria giuridica. Cfr. E. Bulygin, 2007, Il positivismo giuridico, a cura di P. Chiassoni, R. Guastini, G.B. Ratti, Giuffrè, Milano.

23

Si noti peraltro che, in un ordinamento dove norme gerarchicamente superiori vietino la tortura, l’ordine dell’ufficiale sarebbe illegittimo, e dunque non sarebbe (autentico) diritto per ragioni giuridiche (che incorporano istanze morali); tuttavia, servirebbe la pronuncia di un’autorità competente per dichiarare tale ordine illegittimo.

24

Per i rilievi su precedenti versioni di questo lavoro vanno ringraziati Daniele Chiffi, Ciro De Florio, Aldo Schiavello e Francesco Viola, oltre a due anonimi revisori.