BLP

2019/13

Angelo Sraffa

La Riforma della Legislazione Commerciale e la Funzione dei Giuristi

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Pubblico qui, nella sua sostanza, con l’aggiunta di brevi note ed omettendo la parte che traeva ragione dall’occasione in cui il lavoro fu letto, la Prolusione al corso ufficiale di diritto commerciale nell’Università di Torino (9 dicembre 1913).

La svalutazione dell’opera e della funzione dei giuristi coincide sempre, nella storia, con la decadenza del pensiero civile e con l’oscuramento delle libertà politiche: quando il metodo dei giuristi è ridotto ad una casuistica fredda e sterile, indegna del nome di scienza[1], e lo studio del diritto ad un imparaticcio molesto delle norme di legge vigenti, la società, di regola, o esce da una crisi o sta per entrarvi.

Il regime dispotico – sia pur quello di Bonaparte – chiede alle sue scuole che gli preparin dei giuristi che sieno esecutori, non critici, che applichino le leggi, non le giudichino[2].

In tempi di libertà, invece, la funzione del giurista non si esaurisce nella interpretazione della legge vigente, ma comprende anche, e in certi momenti principalmente, la critica rinnovatrice della legge che tende a demolire la norma giuridica non più rispondente ai mutati bisogni o tecnicamente difettosa per ricostruire, sopra i suoi rottami, la norma nuova rispondente ai bisogni nuovi o, anche solo, meglio congegnata. Duplice è, invero, il compito del giurista: l’interpretazione della norma vigente e la preparazione della norma nuova. Si tratta di due funzioni ben distinte, ma connesse ed interdipendenti.

La determinazione esatta dei rapporti e dei limiti fra queste due funzioni del giurista è, ormai, divenuta una necessità urgente della scienza del diritto, perché troppo gravi e frequenti sono stati in questo campo le deviazioni e gli equivoci e da parte dei legislatori e da parte dei giuristi.

Da un lato legislatori presuntuosi hanno tentato – invano! – di annullare l’attività teorica e pratica degli interpreti delle leggi, o riducendo i giudici ad esercitare una funzione quasi meccanica, o riservandosi l’interpretazione dei dubbi nascenti sul senso della legge[3], o stabilendo, in certi casi, quando appariva evidente una lacuna nel sistema legislativo, l’obbligo nei giudici di rimettere al legislatore la risoluzione del punto di diritto ad essi sottoposto[4]. D’altro lato interpreti e giudici superbi hanno preteso, a torto, di svincolarsi dell’obbligo di accettare e applicare la volontà del legislatore e son giunti, per tutta una serie di tappe intermedie, fino a proclamare l’indipendenza del giudice dalla legge.

Anche qui, invece, la verità sta nel mezzo. È vero, da una parte, che con il lavorio della giurisprudenza superiore, per dirla con lo Jhering,

«con la trasformazione della materia giuridica in nozioni»[5], l’interprete ravviva la legge e ne penetra lo spirito, giungendo, mediante l’induzione dai casi espressamente regolati, alla formulazione di principi più ampi e generali, che comportino la soluzione di casi dal legislatore non regolati direttamente; è vero altresì, d’altra parte, che arriva un momento in cui la materia giuridica si palesa improduttiva di altre nozioni e l’evoluzione del diritto ha bisogno di un impulso, che non le può essere dato se non dal legislatore.

Ma poiché la legge non può scaturire, come un prodotto immediato e spontaneo, dalla mente del legislatore, fra il tentativo di una costruzione giuridica al quale la materia più non si presti e la produzione della legge nuova, è necessario un periodo di sosta, in cui la norma nuova si elabori nella mente dei giuristi, come i fatti nuovi, che richiedono di essere regolati dal diritto, sono, intanto, sbocciati naturalmente su dalla vita della società civile, dal movimento degli scambi, dal fervore dei commerci e delle industrie.

Questa elaborazione da parte dei giuristi è indispensabile. La preparazione di una legge non può essere opera individuale o improvvisata, perché la comprensione esatta dei molteplici aspetti dei fenomeni sociali  e delle diverse e talora contradditorie esigenze che essi pongono al diritto, nonché la loro traduzione in formule giuridiche tecnicamente perfette, richiedono una maturazione lunga e paziente, quale può essere data soltanto da una continuata opera collettiva, in cui il tempo e il contrasto degli interessi, delle tendenze, delle opinioni e dei temperamenti riescano ad eliminare le soluzioni occasionali ed individuali. A questa opera di preparazione lenta e continua, deve, nella divisione del lavoro scientifico, essere rivolta l’attenzione di una intiera classe di ricercatori, e precisamente di coloro, che fanno del fenomeno giuridico l’oggetto delle loro indagini, in una parola, dei giuristi.

Dei due compiti propri della scienza giuridica, che abbiamo fin qui delineato, non può dirsi a priori quale sia più importante. A volta a volta, secondo la materia e secondo il momento della evoluzione giuridica, può l’uno o l’altro apparire soverchiante.

Nel campo del diritto commerciale, sul quale, come è naturale, intendo di richiamare più vivamente l’attenzione, parve, per un momento, e fu effettivamente un gran progresso, l’aver affermata la preminenza e l’urgenza della funzione interpretativa. Nella avvertenza premessa alla prima edizione del suo Trattato di diritto commerciale, scritta nel 1893, Cesare Vivante, dopo aver accusato i libri fino allora comparsi sul codice di commercio di «continuare per lo più a discutere la bontà delle dottrine e delle norme che vi furono accolte», proclamava chiusa questa «fase polemica», e affermava la necessità di «costruire il sistema del diritto vigente, quale è per la forza delle leggi e delle consuetudini, che ci governano» ed aggiungeva di non credere, escludendo quasi interamente dal suo Trattato la critica delle leggi, di venir meno al suo scopo scientifico, perché «non si possono riformare le leggi se non si conosce tutto il sistema del diritto vigente e non si scopre tutta la virtù dei principi che esso comporta e che può trasmettere alla legislazione dell’avvenire».

Venti anni dopo questa affermazione e questo monito, ora che, per merito dello stesso Vivante e della scuola giuridica da lui derivata, lo studio del diritto positivo si è spinto, con una serie di indagini minute e pazienti, in ogni campo della legislazione commerciale, ed ha sottoposto tutti, si può dire, i testi di legge, al tormento dei più raffinati metodi di interpretazione, convien domandarci se questo compito della interpretazione del diritto positivo non sia prossimo ormai all’esaurimento e se l’attività dei commercialisti non debba spiegarsi, più proficuamente, in un’altra direzione. Convien domandarci cioè se non sia giunto il momento pei cultori del diritto commerciale di dedicare una parte della loro attività scientifica all’opera di riforma legislativa, e se non sia opportuno di chiamare a questo studio le giovani energie di coloro che saranno i giuristi di domani.

Perché il nostro diritto commerciale si trova in un periodo gravemente critico della sua storia. Infatti, mentre da un canto, per la scarsa adattabilità delle norme positive alle nuove forme ed ai nuovi atteggiamenti dei fenomeni economici, la interpretazione e l’applicazione di esse vanno sempre più perdendo di importanza e di dignità scientifica, dall’altro, per alcune pericolose tendenze manifestatesi di recente nella evoluzione della legislazione commerciale, si appalesa sempre più necessario uno studio serio, ampio ed approfondito delle riforme da parte dei giuristi.

La sminuita importanza della interpretazione dipende principalmente da due cause che importa di mettere in luce: intendo dire dalle difficoltà che la ricerca dogmatica incontra nel campo del diritto commerciale, per la speciale natura delle norme che lo compongono, e dal disseccamento  di una sua grande fonte, gli usi, alla cui virtù rinnovatrice si era troppo creduto fino a non molti anni or sono.

All’incontro, la cresciuta necessità, anzi l’urgenza di una seria preparazione delle riforme legislative, deriva dal modo e dall’indirizzo seguito in Italia dallo Stato, in alcune recenti innovazioni introdotte nella legislazione commerciale, in seguito alla politica di statizzazione da qualche tempo inaugurata.

Sono due ordini di cause che operano in modo convergente, cospirando al medesimo resultato. Vediamo perché. La minore rilevanza della funzione dell’interprete dipende, necessariamente, dalla natura stessa del diritto commerciale. Si tende ormai generalmente a riconoscere che il diritto commerciale è diritto eccezionale di fronte al diritto civile, ed in conseguenza si è rilevato che il diritto commerciale è un diritto eminentemente frammentario e pieno di lacune[6]. Di qui la maggiore difficoltà della ricerca dogmatica nel nostro campo. Mancando bene spesso le norme di diritto commerciale, bisogna applicare le norme di diritto civile che è il diritto normale dei rapporti privati. Ma ben fu osservato, «la legge commerciale è, certamente, rispetto alla materia commerciale, più insufficiente e più incompleta che non sia di fronte alla materia civile propriamente detta, per un doppio motivo: perché essa non contiene una regolamentazione apposita dei rapporti commerciali e perché, col più rapido trasformarsi della vita commerciale, essa rappresenta, per la materia di commercio, una legislazione comparativamente assai più vecchia... Ora quanto più grave è il distacco tra le norme scritte e i rapporti che esse debbono regolare, tanto meno stretta diventa l’analogia tra i casi regolati, ed i nuovi da regolare. Ciò importa che il procedimento della estensione analogica, necessario per applicare la legge vecchia ai casi nuovi, si complichi e si faccia più delicato»[7]. Da ciò deriva la maggiore difficoltà del processo interpretativo nel campo del diritto commerciale. «Il commercialista, prosegue lo scrittore ora citato, deve, mediante un sapiente lavoro di induzione, guadagnare, concetti e norme generali, non solo nel campo del diritto commerciale, propriamente detto, ma anche in quello del diritto civile, e deve giungere persino alla determinazione di principi generalissimi comuni a tutto il sistema del diritto. Solo mediante questo lavorio di induzione e di generalizzazione, gli sarà possibile regolare, mediante norme desunte dal diritto costituito, la infinita varietà dei casi a cui dà vita la multiforme e sempre diversa attività dei traffici».

Ecco come la dottrina e la giurisprudenza si trovano, nel campo del diritto commerciale, a disporre di uno strumento di indagine estremamente delicato, difficile a maneggiare e, occorre aggiungere, assai pericoloso, che acuisce ed aggrava le difficoltà e gli inconvenienti delle costruzioni giuridiche.

Per effetto di questa particolare condizione di cose le norme del diritto commerciale più difficilmente producono, attraverso il lavorio della più elevata interpretazione e quindi attraverso lo sforzo della giurisprudenza, quelle nozioni, ossia quei larghi principi per mezzo dei quali la legge si espande quasi naturalmente e la giurisprudenza – pur senza uscire dal campo fissato dalla costituzione, secondo il principio sancito dall’art. 3 delle disposizioni preliminari al codice civile, e quindi senza creare il diritto – dà opera alla evoluzione giuridica, prima ed all’infuori dell’attività legislativa.

Ma la crisi della funzione interpretativa nel campo del diritto commerciale non deriva solo da questa causa.

Essa è aggravata altresì da un’altra circostanza, che rende ancor più frammentario, imperfetto e pieno di lacune il complesso delle norme giuridiche regolanti la materia commerciale. Era illusione finora largamente diffusa che buona parte delle lacune contenute nella legislazione commerciale fosse, in realtà, colmata dagli usi i quali, come fonte sussidiaria del diritto commerciale, avrebbero avuto la virtù di attingere continuamente alle fresche correnti della vita mercantile i principi nuovi regolatori dei nuovi rapporti da essa creati. Questa illusione subì già un grave colpo, fra noi, per opera del Bonfante, il quale dichiarò non conoscere, e a ragione, «un esempio solo di vera consuetudine o desuetudine nel campo del diritto commerciale»[8]. Ed un altro colpo vi ha dato recentemente il Rocco, dimostrando che gli usi di cui parla l’art. 1 del cod. di comm. non hanno  a che vedere con la consuetudine, perché non costituiscono una fonte di diritto parallela alla legge da cui derivino norme giuridiche aventi, per sé, forza obbligatoria; ma hanno semplicemente il compito di fornire il contenuto alla norma generale dell’art. 1 del cod. di comm[9].

Questo teoricamente, perché in pratica è tutt’altra cosa, l’esperienza dimostrando che è questo contenuto stesso che manca.

Pur nel campo dei così detti usi di fatto, che ha tentato di raccogliere sistematicamente, durante l’ultimo decennio, la Rivista del diritto commerciale, è ben difficile trovare, fra norme tecniche e consigli di buona condotta, un contenuto giuridico vero e proprio.

Ad ogni modo questo è certo: che la formazione stessa dell’uso è oggi profondamente alterata da intromissioni estranee al naturale sviluppo della vita contrattuale.

È una illusione il pensare che gli usi, nella vita odierna, creino un diritto nuovo a base di equità. La illusione è messa in rilievo dal generalizzarsi, nella odierna vita commerciale, di contratti a tipo non individuale che solo formalmente sono il prodotto del consenso dei traenti: di quella serie numerosa di contratti, cioè, posti in essere a base di moduli o polizze a stampa, le cui clausole uno dei contraenti studia minutamente, prepara ed impone e l’altro deve subire.

E si tratta, notisi bene, dei rapporti più importanti e vitali del commercio odierno: del trasporto, del mandato, della locazione, del deposito, dell’assicurazione[10]. Se un diritto ne viene fuori, è un diritto che tutela l’interesse del contraente più forte e sacrifica quello del contraente più debole.

Di fronte alla diminuita importanza dell’interpretazione, sta l’urgenza di provvedere mediante una solida opera di preparazione scientifica ad una situazione che potrebbe divenire grave, a causa dello spirito che anima la recente legislazione commerciale.

Un fenomeno, infatti, di eccezionale gravità, e non peranco messo in luce, si svolge ormai quotidianamente sotto i nostri occhi. Si tratta di un fenomeno parallelo a quello ora ricordato a proposito degli usi, per cui tendono ad acquistare valore di uso le clausole contrattuali imposte dal contraente più forte, al più debole.

Lo Stato, usando della forza preminente, che gli deriva dalla sua sovranità, ne approfitta per porre se stesso, come imprenditore, in una condizione assolutamente ed iniquamente privilegiata. Man mano che lo Stato assume nuove funzioni nel campo dell’industria, si determina e si accentua una deplorevole e fatale confusione fra lo Stato legislatore e lo Stato imprenditore, che conduce ad una grave deformazione della funzione legislativa, ad una pericolosa deviazione dal principio universalmente accolto e formulato dal Bentham «che l’utilità generale dove essere il principio del ragionamento in legislazione». Non essendovi limiti legali all’esercizio della funzione legislativa nel nostro diritto pubblico, che non riconosce alcun potere al disopra del Parlamento, e mancando ogni limite politico in questo campo, in cui la sopraffazione assume la veste di doveroso sacrificio dell’interesse privato all’interesse pubblico, ne è derivata una legislazione, in cui l’arbitrio legislativo, nel significato comune e cattivo, trova applicazioni inverosimili. Abbiam così veduto espropriazioni senza indennità, come nella legge sul monopolio delle assicurazioni, e contratti risolti anzi tempo per volontà e comodo di un sol contraente, come nella legge portante provvedimenti pel riordinamento degli stabilimenti di Salsomaggiore. In un certo senso il legislatore si attribuisce così il potere di andar contro o di andar oltre la evoluzione naturale del diritto e quindi, in un certo senso, contro il diritto.

Infatti ogni ordinamento giuridico è un sistema organico di norme, ciascuna delle quali deve essere coordinata con le altre e col tutto, in modo da rendere possibile la formulazione di principi generali, comuni a tutto il complesso e dominanti tutti i rapporti da esso regolati. In questo complesso organico, ogni norma nuova che penetri nel sistema vi si inquadra modificandolo e modificandosi; e perciò quando la norma contraddice a tutto il sistema, tutto il complesso ne viene sconvolto, turbato e disorganizzato, con grave danno per l’applicazione pratica del diritto.

Si guardi quanto accade in materia ferroviaria, dopo l’esercizio statale delle ferrovie, specialmente oggi, secondo quanto si è preparato dalla Commissione ministeriale costituita in esecuzione dell’art. 38 della legge 7 luglio 1907: i più inconcussi principi in materia di obbligazioni contrattuali sono distrutti ad uno ad uno a favore dello Stato legislatore. I diritti contrattuali, sin qui considerati fondamentali, del contraente cittadino sono soppressi e, conseguentemente, tutti i doveri del contraente Stato sono eliminati. Con l’articolo primo del progetto si stabilisce nientemeno che lo Stato ferroviere e contraente non avrà più l’obbligo di adempiere il contratto di trasporto validamente concluso, a tanto equivalendo la esclusione che porta il progetto di ogni obbligo per le ferrovie di risarcire i danni in caso di inadempimento; con l’art. 53 del progetto l’inadempimento del contratto di trasporto per dolo o colpa lata non dà più luogo a responsabilità delle Ferrovie secondo i principi del diritto comune (la responsabilità è anche in questi casi limitata); per quanto si riferisce alla prova del contratto di trasporto e specialmente della sua esecuzione il Progetto, all’art. 7, attribuisce fede in giudizio alle scritture compilate dagli agenti delle Ferrovie, il che eccede di gran lunga la portata della norma, stabilita, quanto ai libri di commercio regolarmente tenuti, dall’art. 48 cod. di comm.

Questi sono i principi fondamentali della nuova legislazione ed il resto è informato allo stesso spirito.

Come possiamo dunque domandarci senza preoccupazioni, che avverrà domani, nel prossimo e necessario rifacimento di tutto il diritto delle assicurazioni, ora che lo Stato si prepara a divenire l’esclusivo assicuratore sulla vita degli italiani, come ne è già divenuto il principale?

È facile prevedere che vedremo a breve scadenza, certo appena che sia decorso il decennio dopo il quale il monopolio diverrà assoluto, formarsi una nuova legislazione, nella quale sarà codificata tutta la materia. Così la disciplina giuridica del contratto di assicurazione scritta nel codice di commercio sarà abrogata, come sarà fra breve abrogata la disciplina del contratto di trasporto attualmente esistente. E tanto l’assicurazione, quanto il trasporto diverranno fatti non contrattuali, ai quali lo Stato assicuratore e ferroviere riconnetterà gli effetti giuridici che a lui parrà più opportuno ed utile di riconoscere. Sarà così avviata quella evoluzione, da altri preveduta[11], per la quale si opererà l’assorbimento del diritto commerciale da parte del diritto amministrativo e ciò, aggiungo io, con le gravi conseguenze della relativa deformazione pubblicistica di rapporti che sono per la loro natura economica essenzialmente privati.

Avremo quindi a breve scadenza un fenomeno simile a quello verificatosi rispetto all’uso di fatto, ma in proporzioni e con intensità immensamente più grandi. Come qui il volere di una parte, la più forte e la meglio organizzata, impone la sua volontà, in modo che la formazione dell’uso perde tutto il suo fondamento equitativo, così là il volere di una parte, più forte non solo economicamente, ma giuridicamente, perché fornita di quel potere supremo che si dice appunto sovranità, trasformerà radicalmente la vita economica del paese, regolando sulla base della disuguaglianza rapporti che non possono naturalmente svolgersi che sulla base dell’uguaglianza delle parti e dell’equilibrio delle prestazioni.

È una rivoluzione, che si compie sotto i nostri occhi! Né si speri che gli abusi della sovranità, in un campo che è estraneo alle funzioni sovrane dello Stato, possano trovare nel nostro regime rappresentativo i naturali correttivi nella base popolare della rappresentanza politica. La rappresentanza popolare, per le esigenze della tecnica legislativa, tende sempre più, per la elaborazione delle leggi a contenuto prevalentemente giuridico, a spogliarsi dei suoi poteri a favore del Governo[12]. Così a parte l’ampia delegazione contenuta nella legge che ha dato facoltà al Governo di pubblicare il codice di procedura penale, per l’art. 38 della legge 7 luglio 1907, le modificazioni alle condizioni e tariffe dei trasporti per ferrovia saranno approvate, intanto, per decreto reale; il che significa aver ridotto ad una mera formalità l’intervento del Parlamento.

Concludendo dunque: nella odierna fase di sviluppo del diritto commerciale, per la difficoltà della ricerca dogmatica, per l’esaurimento di una delle fonti da cui, in altri tempi, il diritto mercantile traeva cagione di continuo rinnovamento, cioè della consuetudine, l’adattamento del diritto positivo vigente ai nuovi bisogni della vita sociale si è reso sempre più arduo e meno praticamente efficace. Al tempo stesso l’egoismo statolatrico delle moderne tendenze burocratizzatrici mina le stesse fondamenta del diritto commerciale e sacrifica sempre più senza necessità e ad ogni modo senza misura, gli interessi degli individui a quelli che non sono neppure interessi dello Stato, ma delle aziende industriali di Stato.

In questa condizione di cose, la necessità di rendere più consapevole, più metodica, più scientifica la preparazione del diritto futuro si impone per un doppio ordine di motivi, perché la diminuita importanza dell’applicazione e della interpretazione del diritto positivo lascia ormai largo margine alla attività dei giuristi per la elaborazione della riforma legislativa; e perché l’intervento continuo e sistematico della tecnica più raffinata e più obbiettiva dei giuristi nella preparazione dei nuovi istituti può costituire un efficace freno alle esagerazioni delle tendenze burocratizzatrici e quindi, in sostanza, antidemocratiche dell’attuale socialismo di Stato.

So bene che il compito è arduo: so bene che da taluno lo si è volu to porre fuori del campo di attività riservata alla scienza del diritto, per riservarlo alla filosofia del diritto o alla scienza politica[13]. Ma io credo, al contrario, che in pochi campi della sua attività, il giurista abbia dinanzi a sé un compito non solo più alto, ma anche più tecnicamente giuridico, che in questo.

La preparazione del diritto non è, infatti, solamente osservazione della vita sociale, indagine sulle reali esigenze che essa pone al diritto, non è solo, insomma, ricerca sociale e, nel campo nostro, economica: è anche composizione, in una integrazione obbiettiva e serena, dei contrastanti interessi degli individui e dei gruppi sociali; e soprattutto è adattamento e inquadramento delle nuove norme giuridiche nel complesso sistema del diritto vigente. Ora nessuna indagine richiede una tecnica giuridica più delicata di questa. Il giurista che vuole creare una norma vitale deve essere conscio di questa grande verità; che, soprattutto nel campo del diritto, l’innovazione deve essere graduale e non a salti, evoluzione e non rivoluzione: che quei soli istituti giuridici sono destinati a penetrare nella coscienza collettiva ed a prosperare che si innestano sul tronco dei vecchi istituti, come giovani germogli sopra un albero robusto. Sa poi perfettamente il giurista che la nuova norma, inquadrandosi nel sistema del diritto vigente, ne è modificata e lo modifica, e la previsione precisa  di queste future reciproche influenze è opera necessaria di saggia politica legislativa. Or tutto ciò non può esser fatto che dal giurista ed è compito non meno alto ed onorevole che l’applicazione del diritto vigente.

Difficile, è certo, questo compito: esso richiede l’indagine sulla realtà del fenomeno sociale; la determinazione delle esigenze che esso pone al diritto; la visione sintetica dei vari interessi contrastanti e la loro composizione in nome dell’interesse generale; la conoscenza perfetta del diritto vigente per determinare in qual forma giuridica debba il nuovo bisogno essere soddisfatto; il ricollegamento delle norme nuove alle vecchie; la formulazione tecnicamente precisa della norma nuova, in modo da dominarne l’adattamento nel sistema.

Tutte le scienze sono qui messe a contributo: l’economia, la statistica, la scienza politica e quella del diritto positivo. E questo il campo che si apre alla nostra attività e nel quale l’opera nostra non avrà solo un valore logico o giuridico, ma anche un alto significato sociale.

1

Si veda Gény, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, Paris, 1899, p. 1.

2

Taine, Les origines de la France contemporaine. Le régime moderne (1.ª ediz.), 1894, vol. II, p. 200.

3

Giustiniano V. Savigny, Traité de dr. rom. (traduz. Guénoux), vol. I, pp. 292 ss., specialmente p. 301. Si veda in Bonfante, Storia, p. 560 (2.ª ediz.), la congettura che i ceppi inconsultamente posti all’interpretazione da Giustiniano sien stati la causa della sovrabbondante legislazione delle Novelle Giustinianee: vietando l’interpretazione scientifica, egli ha accumulato leggi inutili e prolisse (molte non contengono niente di nuovo, molte contengono in lunghissime pagine pochissimo di nuovo).

4

La Costituente con il Référé obligatoire (Cost. del 3-14 settembre 1791); si veda in Geny, op. cit., p. 72: «Pris dans son tout, le système pouvait être ainsi présenté: la loi s’imposant aux tribunaux, et devant leur suffire pour dégager le Droit, si les juges du fond la méconnaissent ouvertement, le Tribunal de cassation est là pour annuler leur décision. Que si, malgré cette censure, la résistance des tribunaux ordinaires persiste jusqu’à exiger une seconde cassation, il y aura présomption que la loi est obscure ou insuffisante sur le point litigieux. Et le tribunal de cassation devra provoquer une interprétation officielle et obligatoire, de la part du pouvoir législatif, seul compétent pour resoudre tous les problèmes juridiques».

5

Accetto la terminologia dello Jhering (Esprit du droit romain, vol. I, p. 26) che con queste parole indica le costruzioni giuridiche.

6

Si veda specialmente Rocco, Lezioni di diritto commerciale, Padova, pp. 252-253.

7

Rocco, op. cit., pp. 156 e 265.

8

Bonfante, Rivista di dir. com., 1904, 1, 2.

9

Rocco, op. cit., pag. 204.

10

Vivante, I difetti sociali del cod. di comm., p. 17 dell’estratto dalla Critica Sociale di Filippo Turati.

11

Rocco, op. cit., loc. cit.

12

Si veda specialmente Mortara, Per un codice del procedimento civile, Roma, Ripamonti, 1913, pp. 7 e ss.

13

Così, per es., il Lüning, nella Zeitschrift für die g. Strafrechtswissenschaft, III, 233, giunge fino ad affermare che «il giurista si trova lontano nella sua attività scientifica dal partecipare alla produzione del diritto».

14

Pubblico qui, nella sua sostanza, con l’aggiunta di brevi note ed omettendo la parte che traeva ragione dall’occasione in cui il lavoro fu letto, la Prolusione al corso ufficiale di diritto commerciale nell’Università di Torino (9 dicembre 1913).