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Interviste

24/02/2025 Cosmina Dumitrescu

Il ruolo dell'African Development Bank per lo sviluppo dell'economia africana - Intervista a Domenico Fanizza

 

L’intervista al Dott. Domenico Fanizza, Executive Director presso l’African Development Bank e già Executive Director per l’Italia presso il Fondo Monetario Internazionale, dà avvio a un progetto recentemente inaugurato da Bocconi Legal Papers di concerto con il Dott. Roberto Isibor, docente di Business and Investment Law of African Countries presso l’Università Bocconi.

 

Il progetto BLP for Africa si propone di avvicinare l’attività autorale ed editoriale di Bocconi Legal Papers ai recenti sviluppi legali ed economici del continente africano, tramite una prima sezione di interviste, coordinate dal Dott. Isibor, in cui i membri della redazione si confrontano con gli esponenti più illustri di istituzioni domestiche, europee e internazionali che collaborano con il continente africano.

 

Negli ultimi anni, il continente africano ha acquisito un ruolo sempre più centrale nelle strategie geopolitiche e nei flussi di investimento globali. In questo contesto, il Piano Mattei si propone come nuovo paradigma di cooperazione e sviluppo.

Come valuta questa strategia e quali potenzialità intravede per l’Africa nel bilanciare gli interessi degli investitori esteri, da un lato, con le priorità dello sviluppo locale, dall’altro?

 

Gli sviluppi geopolitici recenti hanno evidenziato come, per l’Europa e, forse, a maggior ragione per l’Italia, non vi sia una prospettiva di stabilità economica e crescita sostenuta, senza una relazione forte, dal punto di vista sia economico sia sociale, con il continente africano. La guerra in Ucraina ha messo in chiaro che il modello di crescita europeo, nonché italiano, degli ultimi 30 anni, basato su esportazioni rivolte principalmente all’est europeo, in una prima fase, e successivamente in Cina, non può essere mantenuto. Lo stesso vale per l’approvvigionamento energetico, che dipendeva principalmente dalla Russia. Due anni fa questo modello è crollato con la guerra in Ucraina. Questo ha spinto i Paesi europei a diversificare le fonti di approvvigionamento energetico e a individuare nuovi mercati di sbocco. Tuttavia, già da tempo era evidente che l’Italia non potesse continuare a crescere basandosi esclusivamente sulle esportazioni verso la Germania, vista la crescita anemica di quel paese. L’Africa rappresenta un mercato in forte espansione: è come se l’Italia avesse di fronte a sé la Cina. La sua popolazione è destinata a raggiungere quella cinese nei prossimi decenni, e la sua vicinanza geografica costituisce un vantaggio strategico per l’Europa. Il rallentamento della Cina rende ancora più evidente questa opportunità. Credo che questo sia il motivo principale dell’interesse accresciuto verso il continente, da un lato. Dall’altro lato, vi è anche la consapevolezza che paesi come il nostro stanno attraversando una glaciazione demografica, e non possono di fatto crescere se non utilizzano al meglio la forza lavoro che viene dal continente. Vi è inoltre una consapevolezza crescente riguardo alla necessità di integrare la forza lavoro africana nei sistemi produttivi europei, dato il declino demografico di paesi come l’Italia. La crescita della popolazione africana non è una minaccia, ma una risorsa: la storia dimostra che le teorie malthusiane, secondo cui la crescita demografica rappresenta un fattore critico per lo sviluppo, si sono rivelate errate. La sfida consiste nel creare condizioni per una integrazione sostenibile e vantaggiosa per entrambe le parti. In sintesi, è ormai chiaro che i destini economici e sociali dell’Europa e dell’Africa sono strettamente interconnessi. La trasformazione dell’economia e della società africana rappresenta un’opportunità straordinaria per l’Europa, che deve essere alimentata e gestita con lungimiranza. Naturalmente, permangono sfide e criticità che richiedono un approccio pragmatico e strategico.

 

Negli ultimi anni, il continente africano ha attirato un rinnovato interesse da parte degli investitori internazionali. In questo contesto, quale ruolo svolgono le istituzioni, in particolare l’African Development Bank (AfDB), nella promozione dello sviluppo economico e nella riduzione della povertà? Inoltre, quali sono gli strumenti operativi dell’AfDB e come essa gestisce le relazioni istituzionali con i paesi interessati a investire nel continente?

 

L’African Development Bank è un’istituzione unica nel panorama delle banche multilaterali di sviluppo. Conta 54 paesi membri africani e 24 paesi non africani, tra cui l’Italia e grandi economie come la Cina. È l’unica istituzione plurilaterale in cui le popolazioni africane sono rappresentate in maniera essenziale, dove non si possono prendere decisioni che non siano approvate anche dai leader africani. Ciò non succede in altre istituzioni comparabili; per esempio, la Banca Mondiale e l’International Monetary Fund (IMF) hanno una presenza africana trascurabile. Per di più, gli Stati Uniti e i G7 hanno un potere di veto per cui, se prendono una posizione radicale, tendono ad influenzare sempre le decisioni finali del gruppo internazionale, riducendo, possibilmente, gli interessi dei paesi in via di sviluppo. Prima di ricoprire la mia attuale posizione lavorativa presso l’African Union Bank, rappresentavo l’Italia al Consiglio di Amministrazione del Fondo Monetario Internazionale, dove spesso ci si asteneva perché non valeva la pena opporsi a certe decisioni economiche o politiche volute dai paesi più influenti. All’AfDB non è così: gli interessi del continente rimangono prioritari e nessun paese, per quanto influente, può esercitare un potere di veto sulle decisioni strategiche, come invece accade in altre organizzazioni multilaterali regionali, come l’Interamerican Development Bank. L’azionista di maggior peso della Banca africana è la Nigeria, alla quale, tuttavia, non è stato assegnato potere di veto alcuno. Tutto ciò crea una dinamica molto interessante. 

Per quanto riguarda i suoi rapporti con i paesi, mandato principale dell’AfDB non è semplicemente la riduzione della povertà – che è solo un by product, un effetto secondario – ma la trasformazione economica del continente utilizzando risorse che sono estremamente limitate (tra 10 e 12 miliardi di dollari). La Banca adopera varie strategie per raggiungere il suo scopo, tra cui l’utilizzo calcolato della sua elevata quotazione di credito (AAA) sul mercato dei capitali per mobilitare fondi nei mercati finanziari e reinvestirli a condizioni vantaggiose nei programmi di sviluppo africani. I principali strumenti operativi dell’AfDB sono due: i finanziamenti a tassi di mercato – la banca concede prestiti agli Stati e alle imprese africane con condizioni competitive, sfruttando la sua solida posizione sui mercati internazionali – e l’African Development Fund (ADF), un’istituzione fondata sul modello dell’International Development Agency (IDA) della Banca Mondiale, con l’obiettivo di fornire finanziamenti agevolati ai paesi a basso reddito. Queste risorse sono generalmente contributi volontari da paesi partecipanti come l’Italia e il Regno Unito. Sono principalmente i paesi industriali, ma non solo. Queste risorse sono rivolte solo ai governi, a scopo di sovereign lending (prestiti che sono dati ai governi per investimento). 

Le risorse non concessionali dell’AfDB sono rivolte sia ai governi che al settore privato, che è essenziale per la crescita economica sostenibile. Sebbene oggi solo il 20% dei prestiti della AfDB sia destinato alle imprese, l’obiettivo è aumentare questa quota. L’esperienza degli ultimi settanta anni di aiuti allo sviluppo non hanno creato una crescita duratura, pur avendo contribuito a soddisfare bisogni immediati. Perciò, ci tengo a sottolineare l’importanza del settore privato. I prestiti al settore privato dell’AfDB possono essere fatti sia verso i paesi a relativamente alto livello di reddito che verso i paesi a basso livello di reddito (quelli coperti dall’ADF). I problemi di governance sono, però, molto seri e sfortunatamente non ci si può sempre fidare dei governi, ragion per cui è meglio lavorare con il settore privato. 

 

Nel contesto della cooperazione tra settore pubblico e privato, quale ruolo gioca l’African Development Bank nell’utilizzo dei partenariati pubblico-privati (PPP) come strumento di sviluppo e meccanismo di mitigazione del rischio? Considerando che istituzioni come la Banca Mondiale stanno incentivando sempre di più questa sinergia per affrontare sfide globali, come il cambiamento climatico, in che modo l’AfDB favorisce concretamente la collaborazione tra questi due mondi?

Diversamente dalla Banca Mondiale, che ha un ramo interamente dedicato al settore privato (International Financial Corporation), nella AfDB non c’è differenza istituzionale tra i due settori. Questo presenta sia  vantaggi che svantaggi.

La Banca può finanziare un progetto privato fino a un massimo del 30% delle risorse necessarie. Interviene nei progetti privati dove è presente anche un partenariato con altri investitori interessati al finanziamento di piccole-medie imprese. Parlo di piccole e medie imprese, perché è questo il tipo di investimento che ha un impatto trasformativo evidente. In Africa ci sono grosse compagnie che hanno una buona capacità di ripagamento. Ma queste compagnie spesso non hanno bisogno di risorse finanziarie o, se ne hanno, l’investimento non ha un impatto trasformativo molto importante. Vogliamo andare nella direzione di finanziare piccole-medie imprese che possano crescere e marcare positivamente il panorama economico. Grandi aziende già consolidate hanno meno necessità di supporto finanziario e, spesso, i loro investimenti non portano a un cambiamento strutturale del tessuto economico locale.

Come opera la Banca per favorire il settore privato? La Banca utilizza due strategie principali: 1) individua e investe direttamente in progetti con un alto valore strategico, ma ciò è complesso a causa degli elevati livelli di rischio; 2) investe risorse nei vari fondi dedicati nel continente, gestiti da investitori che creano con la loro conoscenza dell’attività del continente dei veicoli di investimenti in cui la Banca può partecipare, aiutando a mobilizzare risorse addizionali.

Attualmente, la Banca sta rivolgendo la sua attenzione alla sua posizione di garante negli investimenti privati, dedicando la sua attività alla riduzione del rischio sostenuto dagli investitori. Ci sono diversi prodotti che la banca offre come posizione di garanzia. Un esempio è la guarantee on credit risk. Un altro esempio è la promozione delle strategiche public-private partnerships. Anche l’Italia è coinvolta nell’imponente progetto del Lobito Corridor (il Corridoio di Lobito), che collega le zone minerarie di Zambia, Repubblica Democratica del Congo e Angola con il porto di Lobito sulla costa atlantica. Questo è un grossissimo progetto lungo circa 500 km, che va oltre la costruzione di una ferrovia: l’idea è usare la public-private partnership per le parti di investimento infrastrutturale, ma anche fare investimenti complementari in agricoltura ed energia lungo questo tracciato. Il progetto coinvolge attori pubblici e privati, con il sostegno degli Stati Uniti e dell’Italia, che hanno sottoscritto un memorandum of understanding per questo progetto, insieme alla Banca dell’Unione Europea e ai paesi locali (Zambia, Angola, DRC). La Banca sta lavorando su 11 corridoi di questo tipo per cui una quantità di investimenti proveniente dall’esterno è più che necessaria. È evidente la nuova tendenza all’inclusione del territorio africano nei piani di investimento italiani mirati al rafforzamento e al rinnovo dei legami con il continente, con conseguenze benefiche per entrambi i lati. Molto recentemente è stato annunciato che l’Angola è diventato uno dei paesi pilota del Piano Mattei. Penso che questa sia davvero una cosa su cui bisogna lavorare; va nella direzione fondamentale di un mercato integrato per il continente, la cui assenza penso sia l’ostacolo principale all’investimento privato.  

La Banca stima che il bisogno di investimenti addizionali annuali nel continente sono 490 miliardi di dollari fino al 2035. I governi africani, da soli, non hanno la capacità di colmare questa lacuna, e difficilmente i paesi industrializzati potranno farsi interamente carico di tali risorse. Di conseguenza, il coinvolgimento del settore privato è essenziale per sostenere lo sviluppo economico e costruire un mercato africano più integrato, superando una delle principali barriere agli investimenti.

 

Il contesto africano è particolarmente sensibile alle questioni ambientali e sta applicando politiche sempre più rigorose in materia di sostenibilità. Tuttavia, mentre in passato molti paesi si sono industrializzati senza restrizioni ambientali, oggi ai paesi africani viene richiesto di rispettare standard più stringenti fin dal loro sviluppo. Come si concilia questa esigenza con la necessità di crescita economica e quali strategie sono adottate per integrare la sostenibilità nei progetti finanziati, considerando l’urgenza del cambiamento climatico?

Le opinioni e l’approccio stanno rapidamente evolvendo e cambiando, sia per ragioni politiche che per le dinamiche globali in cambiamento. Ho l’impressione che si stia passando da una visione ideologica a una più pragmatica. Non c’è dubbio che la Banca stessa sia estremamente committed, impegnata nella lotta contro il cambiamento climatico, ma lo fa con un approccio realistico e orientato ai bisogni del continente. L’aspetto cruciale è che l’Africa stessa genera pochissime emissioni del CO₂, senz’altro meno del 5% mondiale, e sono concentrate in un paio di paesi (e.g. Sud Africa). Pertanto, il problema principale per il continente non è tanto la mitigazione delle emissioni, quanto piuttosto l’adattamento agli effetti del cambiamento climatico. L’aumento della frequenza e dell’intensità degli shock climatici sta avendo un impatto devastante sull’Africa, generando costi enormi per le economie locali e per le comunità più vulnerabili. Se vogliamo trasformare il continente, dobbiamo cercare di evitare gli errori commessi dai paesi industrializzati. L’accesso all’energia è una delle sfide più urgenti: milioni di persone in Africa non hanno elettricità e fanno affidamento su fonti altamente inquinanti, come la legna e il kerosene, per cucinare e riscaldarsi. Paradossalmente, è proprio questo utilizzo di combustibili tradizionali a contribuire alle emissioni di CO₂. Per affrontare il problema in modo sostenibile, è necessario trovare un equilibrio tra sviluppo e transizione energetica. Per molto tempo, i paesi industrializzati hanno promosso un approccio che escludeva completamente l’uso degli idrocarburi in Africa. Il gas naturale può rappresentare una fonte di transizione verso un mix energetico più sostenibile. Non si tratta di renderlo l’unica soluzione, ma di considerarlo un’opzione strategica per garantire un’energia più pulita rispetto a carbone e biomasse, mentre si sviluppano ulteriormente le rinnovabili. Questa prospettiva più pragmatica sta guadagnando consenso anche tra paesi come Italia, Regno Unito, Olanda che in passato avevano posizioni più rigide. La lotta al cambiamento climatico in Africa deve essere focalizzata sull’adaptation, ma senza sacrificare lo sviluppo. Perché una vera trasformazione economica non può avvenire senza garantire l’accesso all’energia per tutti. 

 

 

Partecipanti

Domenico Fanizza

Susanna Bozzi

Luca Crepaldi

Giorgio Hassan