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Il Private Equity tra Legal e Financial Risk
Il private equity è uno dei modelli di business che più si continuano ad affermare sul mercato; l’obiettivo dell’investitore è agire in tre fasi: raccolta, investimento e disinvestimento. Tale strategia vede l’ingresso da parte dell’investitore nella proprietà e nel management di una società al fine di far emergere a pieno il suo potenziale attraverso un supporto tecnico-finanziario dove il principio reggente il piano imprenditoriale è quello di continuità-innovazione. La creazione di valore dell’azienda determinerà il successo dell’investitore nella fase di exit. Il presente contributo, dopo un inquadramento del fenomeno, si sofferma sull’affrontare i principali rischi legali e finanziari in cui l’investitore può imbattersi con la possibilità di recare pregiudizio all’intero progetto. Nel paragrafo dedicato al legal risk, si sceglie di partire da pronunce giurisprudenziali per poi, attraverso il metodo induttivo, risalire a considerazioni di carattere generale. In particolare, il focus dell’analisi legale verte sulle patologie privatistiche che possano compromettere il private equity. Il financial risk è affrontato prevalentemente sul fronte delle principali metodologie per una fedele valutazione d’azienda, necessaria per l’orientamento delle scelte dell’investitore nelle varie fasi dell’operazione. L’obiettivo è quello di dimostrare come, in attività così complesse, sia necessario un approccio multidisciplinare tra diritto e finanza affinché vi sia una strategia unitaria che vada a tutelare nel miglior modo gli interessi perseguiti dalle parti in gioco.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il Legal Risk. – 3. Il Financial Risk
- 1. Introduzione
Nell’ultimo ventennio le attività di private equity hanno assunto un rilievo crescente nelle economie mondiali, suscitando ampi dibattiti circa l’effettiva creazione di valore risultante dall’investimento. Tale modalità non solo risulta essere prevalentemente vincente, ma anche come una realtà stimolante, interdisciplinare e coinvolgente per gli attori economici dove creatività e intuito sono tratti essenziali congiuntamente alla tecnica e al capitale.
Le origini di tale tipologia di “alternative investment” sono relativamente recenti e databili intorno a metà degli anni Quaranta, dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Pioniere risulta il Regno Unito in cui venne fondata la società 3I, acronimo di Investors In Industry, da parte della Banca d’Inghilterra, con l’obiettivo di fornire nuovo capitale di rischio ad imprese con interessanti prospettive di crescita. In breve, possono essere individuati quattro cicli progressivi:
i. il primo, databile intorno agli anni ’80, che ha visto l’esplosione dei junk bonds;
ii. il secondo, protrattosi dagli anni ’90 fino allo scoppio della bolla dot-com avvenuta tra il 1997 e il 2000;
iii. il terzo, che si è concluso in concomitanza del credit crunch del 2008, favorito dai tassi di interesse molto bassi e dall’elevata liquidità nel mercato debito;
iv. il quarto, ancora in corso, connotato da una vivace attività di M&A.
Muovendo dalla definizione generale, l’operazione di private equity implica l’investimento nel capitale di rischio (equity) di un’impresa non quotata nei mercati regolamentati (private company).
Lo schema usuale è quello dei è quelli dei “fondi chiusi” (closed-end funds) che rivolgono l’attività di raccolta del capitale (fundraising) verso gli investitori istituzionali (Limited Partners, LPs), con attività gestoria in capo ai General Partners, GPs. I rapporti giuridici in essere tra GPs e LPs vengono disciplinati dal regolamento del fondo, sottoscritto al momento della raccolta, al fine di tutelare i reciproci interessi. Di conseguenza, il meccanismo di remunerazione è economicamente incentivante per il gestore, prevedendo una quota di spettanza (in genere il 20%) della plusvalenza realizzata. Tuttavia, tale schema implicherebbe solo una condivisione dei benefici, e non anche delle perdite, ponendo i General Partners in una situazione di indebito vantaggio rispetto ai Limited Partners. A tal proposito la prassi, con l’obiettivo di condividere il rischio di downside, ha previsto anche una quota di coinvestimento da parte dei gestori, nella misura dell’1-5% della capitalizzazione complessiva del fondo. Inoltre, l’allineamento degli interessi intercorrenti tra le due controparti dell’operazione implica la previsione di particolari clausole che limitino i rischi gravanti sugli investitori. Si pensi, a mero titolo d’esempio, alla clausola key man, che conferisce ai Limited Partners il diritto di approvare il nuovo team di gestione o bloccare l’attività stessa, con conseguente liquidazione del fondo.[1]
L’orizzonte temporale è di medio-lungo termine (generalmente non oltre 10 anni) e segue, in via concettuale, gli step che esporremo a breve.
Il modello di business si basa su un’attenta analisi volta all’individuazione di società con ampio potenziale di crescita, per esempio in termini di espansione internazionale, oppure con rilevanti problemi di management o passaggio generazionale.
Come anticipato, il private equity presenta nei suoi sub-procedimenti l’inserimento di tutta una serie di clausole e deal che sono fortemente coerenti alla strategia economica; infatti, in altre operazioni di acquisizione di società che seguono modelli di business differenti, abbiamo la presenza di accordi e patti notevolmente diversi. Il mondo dei capitali e delle società mostra, più di tutti, come logica giuridica e logica economica non possano essere considerate disgiuntamente se gli attori in gioco vogliano perseguire il successo dell’operazione; quanto detto rileva sia sul lato della interpretazione della legge che su quello dell’espressione di un’autonomia privata che sia valida, utile e consenta garanzia di serietà e serenità per i vari partner coinvolti.
Per esempio, in alcuni contesti di M&A sarà tipico rintracciare clausole, come quella di earn-out[2], che esprimono uno scopo di investimento retto da principi nettamente diversi dal private equity.
Confrontando le due fattispecie, nell’operazione realizzata dal private equity l’investitore non è interessato al maggior valore che di per sé l’azienda potrebbe esprimere nel futuro (e che il venditore rivendica), piuttosto il suo focus è sul potenziale che l’impresa potrebbe far emergere grazie al supporto finanziario e tecnico di una nuova proprietà ed una nuova governance. Ciò spiega perché nel private equity non ci si concentra sulle start-up (di interesse, invece, per il Venture Capital), ma si prediligono società avviate in quanto il cuore del profitto non risiede nel futuro “autonomo” dell’azienda, bensì nel rapporto che si instaurerà tra impresa e socio di private equity.[3]
Nelle operazioni di private equity il venditore della società non è visto come “un virtuoso da premiare” bensì come un soggetto da migliorare, aiutare e far crescere grazie all’intervento dell’investitore.[4] Proprio perché le operazioni in esame prevedono un investimento su aziende poco note, in difficoltà o sottotono, generalmente il business di private equity viene preferito dall’investitore istituzionale, vista la sua capacità strutturale di compiere accurate due diligence e analisi sullo status della target, del mercato di riferimento e sui relativi sviluppi di uno e dell’altro. Inoltre, l’investitore istituzionale possiede il network necessario per supportare la target non solo finanziariamente, ma anche sul profilo tecnico.[5]
L’operazione di private equity prevede tre fasi. La prima è quella della “raccolta” (fundraising) dove tendenzialmente vi sarà la costituzione di un fondo chiuso di investimento che interagirà con una società autorizzata ad hoc come le Società di Gestione del Risparmio (SGR) le quali, vigilate dalla Banca d’Italia e dalla Consob, si occuperanno attivamente dell’investimento. La fase della raccolta riguarda il preparare il capitale da investire, i soggetti investitori e l’intermediario che porterà avanti l’operazione. La seconda fase è quella dell’investimento: scelta della società target, acquisto delle partecipazioni sociali, controllo della proprietà della target e lavoro sulla crescita dell’azienda.
La fase di investimento sarebbe quindi “l’entrance” dell’operazione di private equity nella target; il nuovo socio che assumerà, in caso di buyout, una quota superiore al 50% del capitale, andrà quindi a finanziare ulteriormente la società e, come accennato, fornirà il know-how necessario al fine di un accrescimento manageriale del progetto di impresa. Il socio private equity provvederà a nominare uno o più amministratori di fiducia che affiancheranno la precedente governance in base ad un principio di continuità-innovazione. L’investitore istituzionale non ha l’obiettivo di estromettere definitivamente la precedente proprietà e il relativo management giacché la sua permanenza nella target è solamente temporanea, finalizzata ad un profitto economico che risulterà a valle della terza fase: “l’exit”.
La collaborazione tra vecchia e nuova proprietà, al contrario, favorisce l’esito positivo della operazione per il cumulo di know-how e anche per eventuali accordi di rivendita delle partecipazioni al momento dell’exit. Il private equity basa il proprio successo sulla cooperazione e non sulla risoluzione di un conflitto; questo deve essere il principio che ispira tutti i regolamenti contrattuali che si inseriscono nel business.
La terza fase, come accennato, prevede il risultato dell’operazione tramite la vendita delle partecipazioni sociali (ad altro fondo oppure a un’altra azienda) o la quotazione in Borsa. L’exit, chiamata anche “disinvestimento”, sarà espressione dell’eventuale creazione di valore, osservabile mediante una crescita dell’EBITDA.[6]
L’obiettivo della presente trattazione è quello di offrire un contributo sulle principali insidie legali e finanziarie che frequentemente sorgono nei sub-procedimenti di un progetto private equity. Il buon esito dell’operazione, inteso come successo economico-finanziario, per esempio, può essere messo a repentaglio, anche dopo anni, a causa di una clausola “opaca” che ha determinato un’ambigua interpretazione dell’accordo, o per una negligenza nell’affrontare il legal riskdell’operazione, dove, immaginando, le parti potrebbero essersi spinte alla conclusione di un contratto con diversi profili di criticità giuridica che poi è stato accertato come nullo dalla Autorità Giudiziaria.
Così come nelle operazioni di private equity è necessario avere un operatore del diritto e un conoscitore di materia finanziaria che collaborino congiuntamente, per offrire una visione trasversale e coerente delle questioni, anche in questa sede vi è stato questo affiancamento reciproco tra gli Autori, al fine di provare ad offrire un contributo che sia aderente al mercato che si studia.
Solo con un bagaglio di conoscenze eclettico gli operatori possono provare a tessere quella spaccatura ontologica tra diritto e mercato, affinché il primo sia ragionevole, strumentale e calzante rispetto al secondo. Interessante è richiamare il dibattito dottrinale che vi è sul punto. Secondo parte degli esperti, la sfera giuridica dovrebbe “piegarsi”, nel segno della strumentalità, alle esigenze di mercato; un’altra visione, invece, rivendica il “primato” del diritto come espressione dei principi giuridico-politici e, di conseguenza, ritiene che debba essere il mercato ad essere guidato dalla regola giuridica. Nei settori di business, invero, l’operato dei professionisti legali è quello di andare ad offrire una soluzione giuridica che sia quanto più cucita al modello economico che segue l’imprenditore, nell’interesse dei soggetti coinvolti. [7]
- 2. Il legal risk
Nel mondo finanziario è frequente l’uso di espressioni come “credit risk”, “financial risk”, “reputational risk”, “liquidity risk” e tante altre usate ormai diffusamente anche in Italia. Tutti questi temi, su cui si concentrano interi team aziendali, sono considerati di vitale importanza per il buon andamento dei business della società. Per molto tempo l’orientamento delle aziende, anche di elevate dimensioni, è stato quello di trascurare invece il “legal risk”, affidandosi agli avvocati solo nei momenti di controversia e limitandosi a chiedere un’esigua attività di consulenza preventiva sulle operazioni da compiere.[8] I dipartimenti legali interni sono quindi cresciuti focalizzandosi prevalentemente sul tema della compliance e non anche sugli interi progetti di investimento. Solo negli ultimi tempi si è avvertito un netto cambio di rotta attraverso un notevole ampliamento delle aree legali e il coinvolgimento dei rispettivi membri non solo negli affari correnti, ma anche per quelli straordinari e per le operazioni di private equity.[9]
I manager delle principali aziende, che hanno tracciato il solco seguito poi da molti, si sono accorti dell’importanza di avere una costante consulenza legale che sia strettamente legata, endogenamente, in modo esclusivo agli interessi dell’impresa; così facendo, la scelta imprenditoriale andrebbe di pari passo con la valutazione giuridica dove quest’ultima, però, non si sostanzierebbe in un parere di mera conformità all’ordinamento, ma si inserirebbe in un unico processo decisionale nel percorso strategico dell’azienda. Finalmente, sta sorgendo anche nel nostro Paese la figura del “legal risk analyst” quale membro essenziale di una società di investimenti.[10] La necessità di prevenire controversie legali potenzialmente preclusive per l’operazione è sempre più pressante; in altre parole, ci si è accorti che l’intervento postumo dell’avvocato nel momento patologico non dà luogo a soluzioni soddisfacenti, considerati i tempi della giustizia, i costi dei contenziosi e l’imprevedibilità delle oscillazioni giurisprudenziali.
Affrontare il “legal risk” nelle operazioni di private equity si configura come un’attività decisiva affinché vi sia stabilità e garanzia verso l’obiettivo ultimo della strategia: la massimizzazione della redditività sull’investimento (IRR).
Una volta costituito il fondo di investimento, le principali e più insidiose attività giuridiche da compiere nel private equitysono sicuramente quelle relative a tutto il sistema contrattuale che traccia il sentiero dell’operazione. Nell’ambito dell’entrance gli assetti contrattuali verteranno sulla acquisizione delle partecipazioni sociali tramite il sale and purchase agreement, (SPA). I patti di acquisizione di società sono estremamente delicati e, soprattutto nel private equity, sono circostanziati da numerosi accordi preliminari, una cospicua attività di due diligence legale e anche da patti di riservatezza sia a garanzia dell’investitore che della società target. Nell’exit si sottolinea come spesso le complicazioni giuridiche vertano sul processo di “dual track”: questo consiste nella preparazione dell’azienda alla quotazione in Borsa ed alla contemporanea instaurazione di un’asta competitiva di M&A come via alternativa. L’obiettivo è massimizzare il risultato nella fase di disinvestimento aumentando il valore della portfolio company attraverso la competizione di mercato. In via preliminare, va anche sottolineato che è pacifico in giurisprudenza che tutte le attività giuridiche compiute nelle operazioni di private equity sono sempre imputabili alla società “advisor” e mai ad altri soggetti come il fondo di investimento.[11]
L’analisi giurisprudenziale[12] ci mostra come la maggior parte delle criticità legali che si riscontrano nel private equityriguardino le fasi immediatamente antecedenti all’entrance o all’exit.
Un’interessante ed emblematica controversia nell’ambito dell’exit si è avuta in una lite dinanzi al Tribunale di Milano; in particolare, ci riferiamo al contenzioso sfociato nelle pronunce del 6 febbraio 2012 e del 5 aprile 2012 dell’Ottava sezione civile.
Appare utile soffermarci sulle medesime in quanto i fatti sottostanti al giudizio sono tipicamente tutti quelli che si riportano nella teoria del private equity esposta e, inoltre, il Giudice milanese ha espresso interessanti principi di diritto che assumono un carattere di prim’ordine nell’ambito della valutazione del legal risk in questi tipi di investimento. L’attività, aziendale e/o professionale, di legal risk, come accennato, si sostanzia quindi nell’esame dei probabili alternativi scenari legali che possano sorgere all’esito delle operazioni finanziarie, con particolare riferimento alle connessioni che vi sono tra rischio d’impresa e rischio legale. Parlare di legal risk non vuol dire, però, instaurare un procedimento di controllo “successivo” da parte del giurista sull’operato dell’imprenditore, ma significa andare a far sorgere una sintonia tale da poter affrontare il percorso d’investimento in un’ottica olistica, perché se la strategia economica è perseguita attraverso lo strumento giuridico, è necessario che quest’ultimo sia cucito su misura della stessa non solo in termini di validità, ma anche in termini di tattica puramente imprenditoriale.[13]
La vicenda affrontata dal Tribunale di Milano ha visto un’operazione di private equity dove la target è stata una società di stampaggio e fabbricazione di materiale plastico.[14] Gli elementi che hanno indotto l’investitore istituzionale a prendere in considerazione tale azienda sono stati: la sua attitudine ad essere versatile nei confronti delle nuove tecnologie del settore meccanico-plastico e la capacità ad essere appetibile anche sul mercato internazionale. Nel corso degli anni, infatti, grazie all’intervento del socio private equity la target è riuscita ad assumere stabilmente una dimensione transnazionale con sedi e impianti in diversi paesi anche extraeuropei. Un altro elemento che ha indotto tale investimento è stata certamente l’attenzione della stessa verso la sostenibilità ambientale, tema tra i più caldi dell’ultimo decennio fortemente spendibile sul fronte del marketing strumentale ad una exit di successo.
La società nacque come una vera e propria impresa a conduzione familiare che dimostrò rilevanti skills manageriali, ma un’attività finanziaria spesso poco efficiente, o comunque ampiamente in deficit rispetto alle proprie possibilità. Insomma, il caso in esame presenta, invero, tutti i tratti che contraddistinguono il private equity, compresa la tendenza degli investitori istituzionali ad avere uno spiccato interesse verso le aziende familiari.[15] Per immergerci ancor di più nell’operazione partiamo proprio da un passaggio della motivazione della pronuncia[16] dove si inquadra l’operazione: “è opportuno premettere, in fatto, che gli attori ed i convenuti sono divenuti soci nell’ambito di un’articolata operazione volta a realizzare un piano di riorganizzazione in termini di maggiore efficienza, oltre che di sviluppo industriale, del gruppo di stampo familiare che fa capo ai sigg. T., e ciò grazie all’incontro virtuoso tra le buone capacità manageriali e gestionali degli attori, e la disponibilità finanziaria della SGR convenuta, che disponeva di capitali raccolti tra i risparmiatori e pronti ad essere investiti.”
L’evoluzione dell’operazione di private equity è avvenuta nel seguente modo. Il socio investitore decise in prima battuta di acquisire nell’arco del 2005 il 60% del capitale sociale, in modo da assumere pieno controllo della target; i soci familiari (fondatori) possedevano il 40% residuo. Nel 2006 le parti stipulavano un ulteriore contratto di trasferimento di una quota di 30% dal socio private equity in favore dei sigg. T.; all’investitore istituzionale rimaneva quindi solamente un’ultima quota del 30%. Le parti, su tale partecipazione, contemplavano quindi, a loro detta, un patto d’opzione put (i.e. di vendita) a favore dei sigg. T. Conseguentemente, il socio private equity, titolare del diritto d’opzione, lo esercitava entro il termine pattuito vedendo però la controparte non presentarsi avanti al notaio al fine di adempiere ai propri impegni relativi all’acquisto.
La situazione giuridica generatasi è stata quindi in primo luogo la conclusione di un patto d’opzione ai sensi dell’art. 1331 c.c. che recita “quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’art. 1329 c.c.”. L’art. 1329 c.c. prevede che “se il proponente si è obbligato a mantenere ferma la propria proposta per un certo tempo, la revoca è senza effetto.” In sostanza, con il contratto (tipico) d’opzione, nel caso affrontato, i sigg. T. compievano la proposta contrattuale in favore del socio private equity e il vincolo dell’opzione la rendeva irrevocabile per il periodo pattuito. Va sottolineato subito, però, che il Giudice milanese ha qualificato la proposta allegata al patto opzionale quale una proposta di stipulare un contratto preliminare di compravendita di partecipazioni sociali e non un definitivo. Dall’opzione quindi discendevano: in capo al socio private equity un diritto potestativo (i.e. il diritto d’opzione) alla conclusione del contratto preliminare e in capo si sigg. T. uno status di soggezione speculare alla posizione dell’opzionario. L’investitore, con l’esercizio del diritto d’opzione, andava a rendere l’accettazione alla proposta contrattuale tenuta ferma da detto accordo e, così facendo, si andava quindi a stipulare il contratto preliminare.[17] Il Tribunale ha chiarito che la natura preliminare dell’accordo stipulato per effetto dell’esercizio del diritto d’opzione si desumeva sia dalla lettera della proposta contrattuale, che usava formulazioni come “obbligo di acquisto”, sia dalla lettera degli scritti difensivi del giudizio, comportamento valutabile ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, circa l’interpretazione del contratto.
Il Giudice ha specificato, infatti, che l’appuntamento innanzi al notaio costituiva solamente una mera formalizzazione, a fini di opponibilità e trascrizione, di un contratto già perfezionatosi.
Nel giudizio di merito i sigg. T. andavano a chiedere al Tribunale di Milano l’accertamento della invalidità o inefficacia del contratto di opzione o comunque la risoluzione per il venir meno dei “presupposti”, o anche per eccessiva onerosità dello stesso. Elemento determinante del thema decidendum è il fatto che il patto era stato convenuto a titolo oneroso, ossia verso un corrispettivo “minimo” di due milioni di euro (ovvero di un eventuale corrispettivo diverso valutato con altri parametri) che avrebbe funto anche da corrispettivo/prezzo per la quota poi ceduta.
I soci familiari chiedevano la risoluzione dell’accordo per “presupposizione” sostenendo che il prezzo individuato per il periodo di pendenza dell’opzione sarebbe stato convenuto “sul presupposto di continuità e di andamento normale dei risultati aziendali come descritti nei piani previsionali, risultati che sarebbero stati impediti e travolti dall’imprevedibile e straordinaria crisi economica del 2008”. Il Tribunale di Milano non ha condiviso, invero, la tesi dei sigg. T., statuendo un principio che ha ripreso gli orientamenti del Supremo Collegio[18], assolutamente rilevante nella valutazione del “private equity legal risk”: “la presupposizione può avere rilevanza ove consista in una circostanza di carattere obbiettivo assolutamente indipendente dalla volontà delle parti, tanto certa e scontata da non meritare alcuna previsione o regolamentazione contrattuale”.
Partendo da tale assunto, il Giudice ha concluso che gli esiti aziendali sono stati frutto di una sinergia di eventi ed attività e, quindi, non è assolutamente pensabile affermare che gli sfavorevoli risultati della gestione imprenditoriale siano esclusivamente ascrivibili alla sopravvenuta crisi economica del 2008, e non invece (anche) alle scelte gestionali degli organi sociali.
In breve, la crisi del 2008 non può avere alcun rilievo per l’istituto della presupposizione visto che non vi è stato alcun nesso causale esclusivo[19] con i risultati aziendali e, in secundis, la crisi finanziaria del 2008 non è qualificabile come un evento che, di per sé, sia così determinante per la causa concreta del contratto, come invece dovrebbe essere affinché l’accordo possa essere risolto applicando tale istituto di derivazione giurisprudenziale.[20]
Sul fronte della richiesta di risoluzione per eccessiva onerosità, fondata sempre sulla straordinaria intervenuta crisi economica del 2008, il Tribunale ha espresso principi dotati di una fermezza tale da mettere fortemente in guardia gli operatori del private equity, qualunque sia la posizione dei soggetti. Il Giudice ha espresso: “i rilievi che precedono valgono ad escludere che si possa ravvisare l’eccessiva onerosità sopravvenuta, tenuto conto che il rischio connaturato all’esercizio dell’attività imprenditoriale vale di per sé a rendere il patto di fissazione di un prezzo minimo come implicitamente aleatorio.” Il Tribunale ha rintracciato la natura aleatoria nella causa (concreta) del patto d’opzione tra i soci per il nesso tra l’attività imprenditoriale e la fissazione di un “prezzo minimo”. Ciò che evidenzia il magistrato è che le parti hanno piena consapevolezza della presenza di un forte rischio d’impresa che è connaturato a tutte le operazioni che svolgono e, quindi, la scelta dei contraenti di stabilire un “prezzo minimo” è indice di una volontà contrattuale di accettare la possibilità che le sopravvenienze incidano sull’equilibrio delle prestazioni corrispettive.[21]
Il contratto d’opzione sarebbe così qualificabile come aleatorio, cioè contente una causa che accetta e si fonda sul rischio (ordinario e straordinario) patrimoniale e, di conseguenza, non sarebbe applicabile la disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità, come espressamente previsto dall’art. 1469 c.c. il quale statuisce “le norme degli articoli precedenti non si applicano ai contratti aleatori per loro natura o per volontà delle parti”.
Tale pronuncia è stata anche in parte criticata nei suoi passaggi logici. Molti[22] non condividono l’interpretazione per cui la semplice scelta di individuare un “prezzo minimo” significhi che le parti in ogni caso, in forza del loro potere negoziale, vogliano la stabilità e l’inderogabilità di tale prestazione anche alla luce di eventi straordinari ed imprevedibili sopravvenuti. Alla luce di questa decisione, sembra emergere infatti che la clausola del “prezzo minimo”, che si relaziona ad altre clausole connesse sul corrispettivo, può determinare, almeno agli occhi dei giudici milanesi, una mutazione sensibile della causa del contratto rispetto a quando vi sia la determinazione di un “prezzo fisso” senza eventualità connesse o specificazioni. In altre parole, il punto più critico di tale pronuncia risiede nel rintracciare la caratteristica della aleatorietà direttamente dalla clausola del “prezzo minimo”, cioè rintracciare la volontà delle parti di voler “quel prezzo” in ogni caso, al di là di ogni tipo di sopravvenienza.
Con riguardo a tale pronuncia, merita anche richiamare che i soci non opzionari (cioè i concedenti del diritto d’opzione) nel giudizio hanno anche messo in discussione la validità della causa del contratto stipulato con il socio private equity, anche questa oggetto del thema decidendum. In particolare, i sigg. T. avevano contestato il merito del patto in quanto consentiva, durante il suo periodo di efficacia, la possibilità, tramite il “prezzo minimo”, per il socio private equity di andare a “sfuggire” dal rischio d’impresa che, quindi, si sarebbe riversato integralmente sull’altro socio in violazione anche del divieto del patto leonino di cui all’art. 2265 c.c..
Il Giudice ha risposto a tale censura chiarendo proprio i rapporti tra l’attività di private equity (con le relative fasi) e la validità di patti parasociali strumentali alle varie fasi come l’exit nel caso di specie. Il Tribunale ha specificato che il socio private equity “nella sua veste di società di gestione del risparmio, in coerenza con il proprio oggetto sociale, ha infatti svolto una significativa funzione di impulso e di controllo nell’operazione economica che era alla base del contratto parasociale, a garanzia dell’impegno, anche finanziario, al contempo impiegato per incentivare la costituzione e lo sviluppo delle imprese della target. In proposito i sigg. T. hanno illustrato in citazione che tutta l’operazione che ha impegnato il socio private equity e i sigg. T. era volta a studiare e proporre un piano di sviluppo fondato sull’aggregazione delle rispettive imprese che avrebbe consentito la formazione di un gruppo unitario più efficiente sotto il profilo dei costi e della struttura produttiva, con più alto fatturato e con importanti prospettive reddituali.”
Il Giudice ragiona quindi sull’intero progetto di private equity posto in essere dall’investitore istituzionale con la target e rintraccia proprio in tale disegno, concordato e voluto da entrambi, una funzione meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. che rende valida la causa contrattuale dell’opzione così stipulata anche se, di fatto, il socio private equity in questa fase limitata andava a garantirsi un’esclusione da eventuali perdite.[23] Il Tribunale trova la giustificazione sia della meritevolezza della causa del patto opzionale che della non applicabilità del divieto del patto leonino evidenziando proprio che il progetto imprenditoriale (cioè l’operazione di private equity) ha previsto, ab initio, che il socio private equity sarebbe uscito dall’investimento in quei termini e che le redini dell’azienda sarebbero tornate in capo ai sigg. T. In questo senso, il rischio d’impresa è stato gestito e ripartito equamente ed adeguatamente tra le parti lungo tutto il progetto di private equity e la funzione[24] del patto d’opzione piuttosto di essere quella di garantire il socio private equity da eventuali perdite, ed esonerarlo dal rischio d’impresa, sembrerebbe essere quella di andare a concludere un’intera operazione economico-finanziaria condotta dalle parti negli anni, in ossequio al progetto imprenditoriale condiviso dalle stesse, dove viene consentito ai soci fondatori di tornare nel controllo della società dopo “l’incontro virtuoso” con l’investitore istituzionale che ormai ha soddisfatto il suo interesse (e quello speculare dei soci fondatori). Lo stesso Giudice milanese statuisce che il patto d’opzione “sembra piuttosto riconducibile ad un interesse dei compratori”, cioè a favore dei soci familiari per il loro rientro nel pieno controllo della azienda.[25]
Quanto abbiamo trattato, come detto, è emerso dalle pronunce cautelari citate del Tribunale di Milano, dove sono state prese in considerazione le affermazioni di merito del primo giudice così come corrette anche dall’ordinanza sul reclamo cautelare. Il provvedimento definitivo di merito non vi è stato in quanto la controversia è stata composta in via transattiva. Anche questo punto ci deve far riflettere perché la valutazione del legal risk, da parte del giurista d’impresa, non può limitarsi all’indicazione della strategia negoziale più conforme al diritto positivo e finalizzata ad evitare soccombenze processuali, ma si deve confrontare anche col senso pratico, relazionarsi alle esigenze economiche dell’investitore ed analizzare in termini di costo-opportunità la via maggiormente “workable”[26], anche quando in termini di ragione “oggettiva” non la si dovrebbe seguire.
Proprio nel caso di specie, il socio private equity, nonostante le pronunce cautelari lasciassero presagire una vittoria nel merito, ha scelto di transigere temendo una definizione del giudizio difforme e la prospettiva di altri gradi processuali che avrebbero sicuramente compromesso una profittevole chiusura dell’operazione di private equity. La transazione naturalmente ha determinato, però, un incasso inferiore al dovuto, ma è stata preferita, come nella maggior parte dei casi, in virtù proprio del senso pratico, elemento necessario per il professionista che relaziona business e diritto.
La giurisprudenza vista è stata scelta ad hoc proprio per i numerosi insegnamenti, mutatis mutandis, sul legal risk nel private equity che possiamo trarne tramite il metodo induttivo. Lo scopo, come accennato, è quello di offrire uno spunto (tra i tanti) di riflessione civilistica sulle problematiche legali nell’operazione.
L’investimento di private equity deve, in prima istanza, essere sorretto da una accorta pianificazione giuridica. Facciamo riferimento alla redazione di contratti e dichiarazioni di scienza che vadano a mostrare il panorama imprenditoriale che si vuole porre in essere sia con riguardo all’interesse dell’investitore istituzionale che a quello della target. In altre parole, si deve rendere “negoziale”, con chiarezza e formalità, il programma finanziario affinché abbia una indiscussa rilevanza in ogni sede di ermeneutica giuridica. La chiarezza nello specificare che ogni singolo contratto è parte di un unico disegno imprenditoriale è attività essenziale per evitare, in vista di eventuali contenziosi, che agli occhi del giudice possa presentarsi una realtà diversa, che non prenda in considerazione l’intero sistema di interessi proprio dell’operazione.
Nella lite esaminata la piena cognizione da parte del Giudice di tutte le fasi del progetto di private equity è stato l’elemento determinante che ha fatto pendere il giudizio a favore dell’investitore.[27] Qualora non fosse stato chiaro tale inquadramento, è probabile che l’esito offerto dal giudicante sarebbe stato di segno opposto. Infatti, solo l’immersione del patto opzionale nell’intera operazione di private equity ha fatto sì che la causa di questo fosse meritevole di tutela e che non vi fosse violazione del divieto del patto leonino, evitando così la sanzione della nullità del contratto.
La meritevolezza della causa è stata rintracciata nella rilevanza economico-sociale dei progetti di private equity: questi pongono in essere azioni imprenditoriali che determinano effetti ed esternalità positive per il progresso della comunità, intervenendo con risoluzione di crisi aziendali o incrementando la potenzialità di imprese “undermanaged”, soprattutto di rilevanza tecnologica. La meritevolezza è valutata prendendo come parametro determinante l’art. 41 della Costituzione; è evidente che il business di private equity rispetti pienamente la clausola di “utilità sociale” del dettato fondamentale, ponendosi proprio in termini di spinta verso l’idea del Costituente oltre che in termini di non contrasto. Vieppiù, non sembra irragionevole richiamare anche il principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost., dove il quadro costituzionale favorisce proprio ogni genere di attività privata, anche a scopo di lucro, che possa intervenire a favorire interessi di ordine generale. Le operazioni di private equity, sicuramente, intervengono nel favorire i servizi di interesse economico generale, il mercato del lavoro, lo sviluppo tecnologico nonché la ricerca, soprattutto quando le target siano aziende strategiche per il Paese.[28] Va sottolineato come modelli di investimento simili al private equity siano, proprio per i motivi esposti, perseguiti anche dalla sfera pubblica, spesso attraverso società partecipate[29], proprio per i benefici diretti ed indiretti che tali operazioni di mercato generano nei confronti della comunità.
Come anticipato, l’attenzione principale degli operatori giuridici va quindi prestata rispetto alla coerenza tra business plandell’investitore e i contratti che si stipulano in interim; tutto deve essere programmato. Deve essere chiaro alla target che l’investimento “funziona” solo se è consentito un ingresso forte nella governance e se c’è sinergia tra il socio fondatore e il know-how del socio private equity. Ogni clausola deve rispondere sempre anche al progetto generale, deve offrire un precetto negoziale che sia in linea con la visione. Si consigliano, a tal fine, l’utilizzo di premesse, clausole di completezza e clausole di significazione che fungano da ganci nell’intera collana contrattuale prodotta nell’operazione. Va rammentato che un importante rischio nell’iscrivere tutti i contratti in un disegno economico unitario sono le conseguenze della teoria del collegamento negoziale, che sancisce che il destino di ogni accordo segue quello del contratto collegato qualora vi siano i requisiti della dipendenza funzionale e non autosufficienza causale.[30] Per esempio, se abbiamo la risoluzione di un negozio parasociale determinante per gli assetti dell’operazione, vi è il rischio che siano travolti dallo scioglimento del vincolo anche gli accordi di M&A e quelli di riservatezza propri dell’intero progetto.[31]
Da quanto analizzato possiamo evincere anche l’esigenza di valutare un corretto inquadramento delle situazioni giuridiche presenti, non effettuato nel caso di specie ove il Giudice ha valutato diversamente il rapporto contrattuale, e la ponderazione dei propri comportamenti durante l’intera operazione di private equity. Il ruolo dei comportamenti è fondamentale, spesso determinante per ogni lite contrattuale visti i principi ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e ss. L’investitore deve sempre eseguire gli accordi in coerenza con gli altri, in modo da far risultare nei confronti del giudice una piena conformità alla regola dell’articolo 1366 c.c.: l’interpretazione secondo buona fede. L’investitore, così facendo, indurrà il giudicante a cogliere il principio dell’affidamento come precetto che imponga un costante nesso teleologico tra le norme contrattuali e il business di private equity, che deve entrare quindi nella causa concreta di ogni contratto, come il patto d’opzione studiato.[32] Tale strategia difensiva potrà garantire al socio private equity un “condurre” il magistrato alle proprie valutazioni e ad accogliere la tesi suggerita, perché sorretta da giustizia; la pratica giudiziaria insegna che, soprattutto nei giudizi di merito, le soluzioni offerte dalla giurisprudenza hanno un marcato profilo pratico che spesso accoglie i prospetti offerti da quei soggetti che, nell’ambito delle loro attività negoziali, si sono comportati in maniera coerente e logica rispetto agli interessi perseguiti dai negozi stipulati dalle parti.[33]
L’operazione di private equity si protrae per un significativo lasso temporale che, come visto, può arrivare anche a progetti decennali. L’operato di legal risk non può non prendere in considerazione tale questione che ha dato criticità anche al contenzioso esaminato, sotto il profilo del mutamento delle condizioni patrimoniali personali e, quindi, delle onerosità pattuite. Il rapporto con i soci deve essere lungimirante, sincero e aperto a margini di flessibilità a costo di rinunciare ad una rigida applicazione del principio del pacta sunt servanda. L’investitore istituzionale deve prevedere non solo il suo percorso finanziario, ma anche quello del suo socio, in modo da regolamentare al meglio la fase di exit e il rientro – eventuale – della vecchia proprietà nel pieno controllo della azienda. Per questo, potrebbe essere utile la stipulazione di clausole di rinegoziazione e/o di price adjustment; la finalità di tali strumenti non è quella di favorire gli interessi economici della vecchia proprietà, ma è quella di salvaguardare il buon esito del private equity utilizzando il senso pratico in modo da garantire, entro determinati margini, un profitto che corrisponda ai modi e ai tempi previsti, anche se leggermente sotto la soglia auspicata. In altre parole, studiando le controversie di mercato come quella esaminata, appare utile per l’investitore contrattualizzare un principio di flessibilità piuttosto che assumere un comportamento rigido.[34]Come abbiamo visto, spesso a causa degli inadempimenti si ricorre alla tutela giudiziaria che, però, non si manifesta sempre come una via adeguata rispetto agli obiettivi e a i tempi dell’operazione di private equity.[35]
Gli ultimi due punti che il giurista d’impresa deve affrontare nella valutazione del legal risk nelle operazioni studiate, alla luce della giurisprudenza vista, sono il rapporto tra l’operazione e il contesto economico globale e l’interazione tra private equity e rischio d’impresa.
Il progetto di private equity si iscrive nelle oscillazioni economico-finanziarie che possono accadere negli anni a causa di bolle speculative, pandemie, guerre o criticità delle materie prime; il contesto globale può quindi certamente mettere a repentaglio il business incidendo sui costi o sulla liquidità. Le parti devono prestare peculiare attenzione a tali possibilità specialmente se il private equity dura numerosi anni, in quanto la tutela giuridica offerta dal legislatore sul fronte dei deal stipulati non appare essere particolarmente incisiva riguardo la modificazione dei precetti negoziali accordati.[36]
La pronuncia analizzata del Giudice milanese ha messo in risalto la grave crisi economica del 2008 sottolineando che, in favore di una società, essa non può essere messa alla base di invocazioni di tutela giuridica del principio dell’equilibrio patrimoniale, ergo, non è possibile usufruire di mezzi di tutela quali la presupposizione o la risoluzione per eccessiva onerosità. L’orientamento giurisprudenziale visto sembra quindi affermare che l’esposizione a crisi globali rientri, almeno in via generale per una azienda, nella normale alea del contratto e sarebbe difficile, se non impossibile, rintracciare un nesso di causalità esclusiva tra la crisi globale e lo squilibrio patrimoniale sopravvenuto che consentirebbe una legittima attivazione dei rimedi legali. Potrebbe valere il contrario solo quando si trattasse di una operazione di private equity la cui target sia strettamente legata a questioni travolte dalla crisi globale, dove quindi la grave sopravvenuta iniquità contrattuale sarebbe difficilmente imputabile alla discrezionalità imprenditoriale degli organi sociali.
Tali riflessioni, alla luce degli eventi di attualità degli ultimi anni[37], paiono essere di estrema importanza nella valutazione del legal risk di una operazione finanziaria; il tutto assume ancora più significato se consideriamo il fatto, già accennato, che l’ordinamento italiano prevede ancora oggi una scarsa disciplina in materia di sopravvenienze contrattuali.
Interconnettere l’operazione di private equity con il rischio d’impresa, nel senso di “giuridicizzare” quest’ultimo, è un altro insegnamento fondamentale che cogliamo da quanto esaminato. Nella lite vista, ciò che ha salvato l’investitore istituzionale dalla nullità del patto d’opzione, che altrimenti sarebbe stato qualificato come leonino, è stato proprio il cogliere quest’ultimo alla luce dell’intero business tra il socio private equity e i soci familiari. Infatti, nel caso di specie vi è stata non solo una equa ripartizione tra i soci del rischio d’impresa lungo tutto il plan ma addirittura un comportamento definito “virtuoso” del socio private equity rispetto al socio fondatore; in questo senso, non si è rintracciato un contrasto con la ratio del divieto del patto leonino proprio per la peculiare meritevolezza della funzione del patto opzionale e del ruolo in generale che il socio private equity ha assunto nei confronti della target: migliorandola, arricchendola, sostenendola.
“Giuridicizzare” il rischio d’impresa[38] vuole dire quindi codificare nelle regolamentazioni private quali sono le effettive responsabilità finanziarie che si vogliono mettere in gioco tramite l’investimento e chiarire il “come” deve essere il decorso di tali responsabilità durante l’interim period tra l’entrance e l’exit. L’uscita graduale, cioè l’attuazione della fase di disinvestimento, deve essere chiaramente pianificata con il socio contraente per evitare il rischio che l’investitore istituzionale possa essere inquadrato in una posizione di dominio illegittimo nei rapporti sociali e parasociali. Le pianificazioni, come nel caso di specie visto, hanno come esito contratti preliminari, patti opzionali o strutture più complesse come quelle relative ai fenomeni del signing e closing.
Abbiamo visto, senza alcuna pretesa di esaustività, alcuni aspetti critici che devono essere necessariamente affrontati nel legal risk del private equity, dando un taglio civilistico alla prospettiva ed utilizzando il metodo induttivo. E’ sembrato maggiormente utile scendere nel cuore di una pronuncia per poi risalire nel generale al fine di offrire spunti che possano essere utili e interessanti, piuttosto che analizzare il sistema da un punto di vista puramente teorico.
- 3. Il financial risk
La crescente rilevanza delle operazioni di private capital (i.e. private equity & private debt) ha spinto gli operatori a riflettere non solo su quali possano essere i driver di valore tali da rendere profittevole l'operazione, con riflessioni, per esempio, sulle caratteristiche “ideali” della target, ma anche, e in tempi più recenti, sui rischi rivenienti dall’investimento medesimo e sulle strategie di copertura (hedging) più adeguate.
Nonostante la recente crisi finanziaria, si è assistito a una continua spinta del mercato del private equity, non solo nelle economie sviluppate, USA in particolare, ma anche nei Paesi emergenti. Un report di Bain & Company del 2021 evidenzia una dimensione media delle operazioni di buyout passata da $M 243 nel 2005 a $M 776 nel 2020. La stessa Italia nell’ultimo decennio ha vissuto un significativo sviluppo raggiungendo 848 deal nel 2022 (+30% rispetto all’anno precedente).[39]
Nell’ultimo decennio i fondi di private equity hanno dimostrato di riuscire a realizzare ritorni interessanti, sensibilmente superiori a quelli ottenuti comunemente sui mercati finanziari, in particolare per le aziende con un fatturato inferiore ai 250 milioni, ma contraddistinti da elevata volatilità, ad evidenza di un significativo financial risk sottostante.
Le politiche monetarie condotte dalle banche centrali negli ultimi anni sono state fortemente espansive, realizzate mediante una pregnante attività di quantitative easing, con conseguenti tassi di interesse molto bassi, prossimi allo zero o addirittura negativi. Ciò ha condotto, in modo sinergico, a due conseguenze di significativa importanza:
i) da un lato i bassi tassi di interesse hanno favorito operazioni di investimento con elevato livello di indebitamento (i.e. leveraged buyout), data la possibilità di finanziarie in modo conveniente l’operazione;
ii) dall’altro gli investitori sono disposti a modificare la propria prospettiva di rischio per cercare fonti di rendimento decorrelate e adottare una definizione più ampia di diversificazione, in modo da ottenere rendimenti sensibilmente superiori a quelli ottenibili sul tradizionale mercato dei capitali.
Nella recente situazione di bassi di interesse, il mercato degli investimenti alternativi ha offerto in media un premio nella misura del 2-8%, a seconda dell’asset sottostante e del contesto di riferimento.[40]
Come esaminato nel corso della trattazione, l’investimento realizzato dal fondo è a tempo determinato, con successiva dismissione della quota di interessenza, sia essa maggioritaria o minoritaria in funzione del profilo di rischio e della tipologia di operazione. Obiettivo ultimo, pertanto, risulta essere la massimizzazione dell’IRR, ovvero dell’internal rate of return. In ottica di gestione del rischio finanziario sarà prerogativa della società di gestione la “protezione” di tale metrica, che risulta essere dipendente essenzialmente da tre componenti:
i) valore dell’equity all’inizio dell’investimento;
ii) valore dell’equity finale, in sede di dismissione della partecipazione;
iii) dividendi attesi distribuiti durante l’holding period.
Il calcolo del valore (fair value) espresso dalla società è frutto di un algoritmo valutativo che può prendere in considerazioni metodologie “analitiche” come il Discounted Cash Flow Model (DCF), oppure, nella maggior parte dei casi, “metodi di mercato”, quali i Multipli. Per completezza, si espongono brevemente le metodologie, al fine di offrire una panoramica esaustiva.
Il DCF presuppone che venga definito, di concerto con la portfolio company, un business plan futuro che recepisca i driver alla base della creazione di valore, come, per esempio, maggiore efficienza, internalizzazione, o cambiamenti strutturali anche in termini organizzativi. Successivamente si procede con il calcolo dei flussi di cassa, solitamente muovendo a partire dall’EBITDA, e considerando le variazioni nel capitale circolante (working capital) e nelle CAPEX (investimenti/disinvestimenti). In una prospettiva di “maggioranza”, denominata asset side, si calcoleranno dei flussi di cassa unlevered, di pertinenza sia di azionisti che obbligazionisti, alla luce della possibilità di intervenire sulla struttura del capitale. Diversamente, in una prospettiva di “minoranza”, ovvero equity side, si otterranno dei flussi di cassa levered, esclusivamente di pertinenza degli azionisti. I primi saranno scontati al WACC, ovvero al costo medio ponderato del capitale (i.e. di debito e dell’equity), mentre i secondi al costo del capitale azionario. Giova sottolineare come nel WACCvenga preso come riferimento il mix debito/equity “ottimale”, cui è auspicato giungere. Nel primo caso si otterrà l’enterprise value (EV), mentre nel secondo si disporrà già direttamente del valore dell’equity value finale.[41]
Al contrario, il metodo dei multipli recepisce la prospettiva del mercato e di solito agisce a guisa di metodo di controllo per il più analitico DCF. Si distingue tra:
i) metodo delle transazioni comparabili, che considera i multipli impliciti di recenti operazioni;
ii) metodo dei multipli di Borsa, in cui le metriche vengono calcolate prendendo a riferimento i valori di società quotate sui mercati regolamentati.
Definito il panel di società comparabili, si procede con il calcolo della mediana o della media dei multipli di interesse, di solito EV/EBITDA, oppure EV/EBIT, o P/E. Successivamente, si moltiplica il valore mediano o medio del multiplo per il valore del denominatore stimato per la target. In altri termini, e prendendo quale riferimento il multiplo EV/EBITDA, una volta calcolato il valore mediano (o medio) di tale indice, si moltiplica tale valore per l’EBITDA della target. Pervenuti al valore dell’Enterprise Value finale (EV), per ottenere l’equity value, si dovranno rimuovere la Posizione Finanziaria Netta, gli interessi di minoranza (Non controlling interests) e preferred stocks. Stesso iter viene seguito nel caso di prospettiva asset side del DCF ove si perviene all’EV.
Un approccio olistico al risk management dovrà considerare tutte le precedenti variabili, dal multiplo alla stima dell’EBITDA. È proprio il valore dell’equity finale (i.e. all’exit) ad esercitare un impatto rilevante sull’entità dell’IRRgenerato. Una prima fase, antecedente al signing, vede il management impegnato in un’attenta fase di due diligence volta ad individuare l’esposizione della target al rischio di tasso di cambio e di interesse, nonché a determinare gli obiettivi del fondo in termini di IRR atteso. Successivamente, tra signing e closing, vengono definite le strategie di copertura (i.e. hedging) del rischio di tasso e di cambio. Nella terza fase, tra closing e preparazione dell’exit, vengono poste in essere le operazioni di copertura che erano state precedentemente pianificate.[42] Infine, nell’ultima, è di particolare rilievo la gestione del tasso di cambio che attiene alla partecipazione in società estere. Si pensi, ad esempio, a un fondo statunitense avente una partecipazione in un’azienda italiana. Risulterebbe particolarmente pericolosa una forte svalutazione della moneta estera, con grave pregiudizio per il rendimento.
Presidiare e governare i rischi finanziari risulta un’attività complessa, che sconta anche dei limiti e dei vincoli, pertanto deve essere pianificata adeguatamente. Il primo, e peraltro più gravoso, è disporre di adeguate risorse finanziarie funzionali all’acquisto dello strumento derivato di copertura e all’utilizzo dello stesso. In funzione delle riserve di liquidità disponibili si propenderà per strumenti più o meno efficaci, alla luce del loro livello di onerosità. A mero titolo di esempio, l’acquisto di un’opzione, che sottende il pagamento di un premio, è meno oneroso di uno swap (come, ad esempio, un currency swap, o un cross currency interest swap). Risulterà pertanto critica allo svolgimento di questa attività di copertura anche la previsione dei flussi di cassa attesi dalla target, al fine di porre in essere il miglior corso di azione.
Le operazioni di private equity vengono solitamente effettuate “a leva”, contemplando la stipula di un finanziamento finalizzato all’acquisizione della partecipazione. Si pensi, infatti, alla nozione di leveraged buy out, che esprime con vigore il ruolo cruciale del debito (leverage) nell’operazione. Spesso il debito viene contratto a tassi variabili, esponendo il fondo e la target a un possibile rialzo dei tassi, fenomeno assai recente conseguente alle politiche delle banche centrali finalizzate al contenimento dell’inflazione. Risulta dunque essenziale acquistare adeguati strumenti di copertura. Un interest rate swap potrebbe essere il candidato ideale, permettendo i seguenti scambi:
i) la società paga gli interessi a tasso fisso concordato alla controparte del derivato;
ii) al contempo riceve da suddetta controparte gli interessi calcolati sul tasso di interesse variabile;
iii) utilizza tali interessi per remunerare la banca con cui aveva stipulato precedentemente il finanziamento a tasso variabile.
Con l’obiettivo di non risultare suscettibili di potenziali conflitti di interesse con la banca concedente il finanziamento, sarà fondamentale indagare le caratteristiche tecniche dello strumento per verificare la rispondenza dello stesso alle esigenze di copertura. L’istituto di credito potrebbe, infatti, proporre un derivato subottimale, o negoziato a condizioni peggiorative. Non sono rari i casi in cui vennero venduti derivati speculativi in cambio di derivati di copertura. Basti pensare a un derivato step-up knock out spread swap, che amplifica le perdite in caso di tassi al di fuori di un certo range, invece che dispiegare un’azione di copertura.[43]
Altro tema cruciale è il rischio di cambio che origina quando il fondo è denominato in una valuta differente dalla target. Due saranno gli elementi oggetto di copertura:
i) il valore dell’equity al momento del closing e dell’exit
ii) i dividendi distribuiti durante l’holding period
Con riferimento al punto sub. i) l’equity value sarà calcolato applicando il tasso di cambio a pronti (spot) tra la valuta del fondo e quella della società in portafoglio. Il problema che si pone è essenzialmente riconducibile a ritardi significativi o cause ostative che precludano l’operazione di acquisto o vendita della partecipazione. L’uso dei tradizionali derivati risulta dunque pericoloso giacché potrebbe emergere, mutatis mutandis, una posizione speculativa sul cambio. L’ingegneria finanziaria ha così dato origine a una nuova classe di derivati, denominati “contingent derivatives”, i quali producono effetti solo al verificarsi di talune condizioni. Altra possibilità sono le “opzioni con premio differito” che prevedono il regolamento (i.e. pagamento del premio) alla scadenza, e non al momento della stipula del contratto.
Quanto al punto sub ii) si procede coprendo il primo flusso di dividendi percepiti e “rollando” la copertura nei periodi successivi. Ciò implica la necessità di effettuare stime attendibili sia con riferimento ai momenti di distribuzione, che all’entità dei flussi stessi, con l’obiettivo di evitare situazioni di eccessiva o insufficiente copertura che hanno effetti negativi sulla massimizzazione dell’IRR.
Se da un lato rischio di tasso di interesse e di cambio attengono a ogni tipo di azienda che operi in contesti strutturati e internazionali, il private equity si espone ad ulteriori tipologie di rischio, tipiche della sua natura di “alternative asset”:
i) Funding risk (Rischio di insolvenza): esprime il rischio di inadempimento nei pagamenti a favore del fondo di private equity da parte degli investitori.
ii) Liquidity risk: la natura stessa del private equity, prevedendo l’acquisto di partecipazioni in società non quotate, implica una difficoltà di cessione dell’interessenza in tempi brevi, se non a forte sconto sul NAV (net asset value). Il mercato secondario ove cedere la partecipazione è estremamente ridotto sia in termini dimensionali che di scambi, costituendo solo circa il 3-5% del mercato primario. La misurazione di tale rischio risulta particolarmente difficile, così come complessa anche la strategia per farvi fronte. Un’asset allocation equilibrata e diversificata, con una componente non preponderante di investimenti illiquidi, risulta essere la strategia vincente per gli investitori istituzionali come banche ed assicurazioni che hanno in portafoglio anche partecipazione nel private equity.
iii) Market risk: fluttuazioni del mercato hanno forte impatto sul valore dell’investimento; le metriche verranno calcolate sulla base dei valori trimestrali di NAV ed eventuali cambiamenti potrebbero essere imputabili a variazioni nel fatturato, nell’EBITDA o nella struttura del capitale.
iv) Capital risk: esprime il rischio di perdere l’intero capitale nell’orizzonte temporale considerato; il valore di realizzo degli investimenti in private equity può essere influenzato da numerosi fattori, tra cui la qualità del gestore del fondo, l'esposizione al mercato azionario, i tassi di interesse e i cambi. Mentre il market risk attiene a valori non realizzati (unrealised values), quello in esame invece esprime la perdita in portafoglio. Gli investitori hanno la possibilità di mitigare tale rischio mediante un’accurata diversificazione in termini di quote di fondi detenuti e diversi orizzonti temporali.[44]
Come si è potuto appurare in questa breve trattazione, i rischi finanziari e legali costituiscono un elemento di rilevante interesse sia per il vertice dell’azienda che per il fondo che detiene la partecipazione, rectius, la società di gestione (SGR). La caratteristica peculiare del private equity, ascrivibile essenzialmente alla natura illiquida di tale investimento, comporta la necessità di presidiare i rischi in maniera ancora più oculata in modo da ridurre l’insorgenza di questioni che possano minacciare la massimizzazione del rendimento per l’investitore, sintetizzato nella metrica dell’IRR. L’attività “risk analysis” si afferma quindi sempre di più sul mercato quale elemento indefettibile della strategia imprenditoriale che, per risultare efficace ed efficiente, deve necessariamente coinvolgere un team interdisciplinare che si muova, almeno, tra diritto e finanza attraverso un unico processo decisionale.
[1] M. DALLOCCHIO, G. LUCCHINI, C. PIRRONE, Mergers & Acquisitions, Egea, Milano, 2021, pp. 365 e ss.
[2] La clausola di earn-out accede ai contratti di compravendita di partecipazioni sociali e prevede che al closing l’acquirente pagherà un prezzo base, ma se nel periodo di operatività dell’earn-out la target raggiungerà determinati obiettivi, che possono essere economico-finanziari o di performance, l’acquirente dovrà corrispondere al venditore un’ulteriore somma di denaro a titolo di prezzo eventuale. Si veda M. CONFORTINI, Clausole Negoziali, UTET, Milanofiori Assago, 2017, pp. 990 e ss.
[3] J. VAN HEESCH, Private equity perspectives for 2023, rsm.global, 2023, disponibile su https://www.rsm.global/insights/private-equity-perspectives-2023
[4] A. KARPUSHONAK, Exploring the Potential of Private Equity: Understanding the Risks and Rewards of Investing, finextra.com, 2023, disponibile su
[5] AA. VV., Private equity e venture capital. Manuale di investimento nel capitale di rischio, LaFeltrinelli, Milano, 2020, pp. 220 e ss.
[6] A. RAFFAELE, Private Equity: definizione e funzionamento investimenti, societaria.it, 2023, disponibile su https://www.societaria.it/finanza/finanza-dimpresa/private-equity-334998/
[7] Si veda sul punto: G. PASCUZZI, Il problem solving nelle professioni legali, Il Mulino, Bologna, 2017; interessanti anche le parole del Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza Oliviero Diliberto riportate al convegno del 15.07.2020 disponibile su https://www.youtube.com/watch?v=QdBD1OymuwI&t=3408s
[8] A. DEL BONO, Legal Management: un nuovo punto di vista, ilsole24ore.it, 2021, disponibile su https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/legal-management-nuovo-punto-vista-AEHEPU?refresh_ce=1
[9] A. OLIVIERI, Il dipartimento legale in-house e la strategia del business: un’opportunità per generare valore, ilsole24ore.it, 2021, disponibile su https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/il-dipartimento-legale-in-house-e-strategia-business-opportunita-generare-valore-ADEk4KJB
[10] A. DEL BONO, Dipartimenti legali in-house: il primo report interamente italiano, ilsole24ore, 2021, disponibile su https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/dipartimenti-legali-in-house-primo-report-interamente-italiano-ADYdLMTB
[11] AA. VV., Private equity e venture capital. Manuale di investimento nel capitale di rischio, LaFeltrinelli, Milano, 2020, pp. 220 e ss.
[12] Si veda anche: Trib. Roma, Sez. XVII, 4 ottobre 2021, in leggiditalia.it, 2021, disponibile su https://www.studiolegale.leggiditalia.it/#id=10SE0002429736,__m=document; Trib. Milano, Sez. spec. In materia di imprese, 29 aprile 2016, in leggiditalia, 2016, disponibile su https://www.studiolegale.leggiditalia.it/#id=10SE0001689249,__m=document; Trib. Milano, Sez. VIII, 10 aprile 2012, in leggiditalia.it, 2012, disponibile su https://www.studiolegale.leggiditalia.it/#id=44MA0002372412,__m=document
[13] G. PENZO, La risoluzione per eccesiva onerosità di opzione di vendita di partecipazioni sociali, osborneclark.com, 2014, disponibile su https://www.osborneclarke.com/it/insights/la-risoluzione-per-eccessiva-onerosita-di-opzione-di-vendita-di-partecipazioni-societarie
[14] Trib. Milano, Sez. VIII, 6 febbraio 2012; Trib. Milano, Sez. VIII, 5 aprile 2012.
[15] AA. VV., Private equity e venture capital. Manuale di investimento nel capitale di rischio, LaFeltrinelli, Milano, 2020, pp. 220 e ss. Si specifica qui analiticamente il perché le aziende a conduzione familiare siano predilette dall’investitore dove si fa riferimento soprattutto alla necessità di mantenere nella società “l’impronta originaria” che, con il capitale e i suggerimenti tecnici giusti, può svilupparsi in significativi profitti; una estromissione della precedente proprietà rischierebbe di compromettere il principio continuità-innovazione su cui si impernia il progetto.
[16] Come specificheremo in seguito, le parole riportate fanno capo prevalentemente alla ordinanza del Tribunale di Milano del 6.02.2012 per questo nella maggior parte dei casi parleremo di “pronuncia” al singolare anche se le considerazioni giuridiche riportate emergono da entrambi i provvedimenti.
[17] Trib. Milano, Sez. VIII, 6 febbraio 2012; Trib. Milano, Sez. VIII, 5 aprile 2012.
[18] L’orientamento ripreso dal Giudice milanese è Cass. civ., Sez. I, 26 gennaio 1993, n. 948, in leggiditalia.it, disponibile su
https://www.studiolegale.leggiditalia.it/#id=44MA0000346106,__m=document
[19] Nel senso che i risultati aziendali sono stati frutto anche della volontà e del comportamento delle parti e non è rispettato quel requisito di “indipendenza” chiesto dalla Corte di Cassazione affinché sia applicabile la presupposizione. Si veda sul punto Cass. Civ. 4 gennaio 1993 n.10 in Mass. Giur. It, 1993.
[20] Questione simile è affrontata nel seguente contributo: G. PENZO, La risoluzione per eccesiva onerosità di opzione di vendita di partecipazioni sociali, osborneclark.com, 2014, disponibile su https://www.osborneclarke.com/it/insights/la-risoluzione-per-eccessiva-onerosita-di-opzione-di-vendita-di-partecipazioni-societarie
[21] Trib. Milano, Sez. VIII, 6 febbraio 2012; Trib. Milano, Sez. VIII, 5 aprile 2012
[22] G. PENZO, La risoluzione per eccesiva onerosità di opzione di vendita di partecipazioni sociali, osborneclark.com, 2014, disponibile su https://www.osborneclarke.com/it/insights/la-risoluzione-per-eccessiva-onerosita-di-opzione-di-vendita-di-partecipazioni-societarie
[23] La garanzia che aveva instaurato il socio private equity tramite il patto d’opzione copriva eventuali oscillazioni sul mercato del valore della partecipazione in sede di exit perché il corrispettivo pattuito, su cui verte l’onerosità dell’opzione, avrebbe funto anche da corrispettivo per la quota del 30% da cedere. Il “prezzo” della quota del socio era stato quindi cristallizzato al momento della stipula del patto opzionale, senza possibilità, durante la fase di operatività del patto, di poter ricevere un pregiudizio finanziario derivante dal rischio d’impresa rispetto alla quota in proprio possesso.
[24] In questo passaggio della motivazione emerge chiaramente che l’equità (e la legittimità) della ripartizione del rischio d’impresa va colta volgendo lo sguardo all’intero progetto imprenditoriale e non alle singoli situazioni; solo così si può accertare se effettivamente un socio si è atteggiato da “leone” nei confronti dell’altro o meno, aldilà delle singole previsioni negoziali.
[25] Trib. Milano, Sez. VIII, 6 febbraio 2012; Trib. Milano, Sez. VIII, 5 aprile 2012
[26] Termine importato dal linguaggio della concorrenza: vuol dire “concretamente perseguibile”, “effettivamente utile”, “ragionevole”. Si veda sul punto G. CAMPA, Economia e finanza pubblica, UTET, Milano, 2017, pp. 87 e ss.
[27] Trib. Milano, Sez. VIII, 6 febbraio 2012; Trib. Milano, Sez. VIII, 5 aprile 2012.
[28] Il tutto considerando che spesso le target sono aziende in crisi. Quindi, oltre a quanto detto che si aggiunge, anche il semplice intervento finanziario e volto allo sviluppo del know-how della target, di per sé, costituirebbe una funzione assolutamente apprezzata dall’ordinamento.
[29] Pensiamo all’operato di istituzioni come Invitalia o Cassa Depositi e Prestiti.
[30] Si veda C.M. BIANCA, Diritto civile. Il contratto, vol. 3, Giuffrè Editore, Milano, 2019, pp. 454 e ss.
[31] M. CARLOTTI, Tecniche di private equity. Il fondo. L’investimento. La gestione e il disinvestimento, Egea, Cuneo, 2012, pp. 45 e ss.
[32] G. PENZO, La risoluzione per eccesiva onerosità di opzione di vendita di partecipazioni sociali, osborneclark.com, 2014, disponibile su https://www.osborneclarke.com/it/insights/la-risoluzione-per-eccessiva-onerosita-di-opzione-di-vendita-di-partecipazioni-societarie
[33] AA. VV., Private equity e venture capital. Manuale di investimento nel capitale di rischio, LaFeltrinelli, Milano, 2020, pp. 220 e ss.
[34] A. KARPUSHONAK, Exploring the Potential of Private Equity: Understanding the Risks and Rewards of Investing, finextra.com, 2023, disponibile su https://www.finextra.com/blogposting/23580/exploring-the-potential-of-private-equity-understanding-the-risks-and-rewards-of-investing
[35] G. PENZO, La risoluzione per eccesiva onerosità di opzione di vendita di partecipazioni sociali, osborneclark.com, 2014, disponibile su https://www.osborneclarke.com/it/insights/la-risoluzione-per-eccessiva-onerosita-di-opzione-di-vendita-di-partecipazioni-societarie
[36] La dottrina italiana prevalente critica lo status attuale del Codice Civile in tema di sopravvenienze contrattuali auspicando un intervento. Interessante, sul punto, è richiamare la sintesi espressa dall’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Prof. Avv. Giuseppe Conte, che, al convegno romano dell’Associazione Civilisti Italiani del 14 giugno 2019, si soffermò a lungo su tali punti sia in qualità di civilista che in qualità di vertice del Governo. Si confronti il disegno di legge n. 1151 della XVIII Legislatura reperibile al link: https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01106422.pdf
[37] A. KARPUSHONAK, Exploring the Potential of Private Equity: Understanding the Risks and Rewards of Investing, finextra.com, 2023, disponibile su
[38] G. PENZO, La risoluzione per eccesiva onerosità di opzione di vendita di partecipazioni sociali, osborneclark.com, 2014, disponibile su https://www.osborneclarke.com/it/insights/la-risoluzione-per-eccessiva-onerosita-di-opzione-di-vendita-di-partecipazioni-societarie
[39] Si confrontino i dati risultanti dagli studi della Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt consultabili sul sito ufficiale www.aifi.it
[40] N. DOWNER, Manager Point of View. Institutional Trends in Responsible Investing, im.natixis.com, 2020, disponibile su https://www.im.natixis.com/en-ch/topic/manager-point-of-view
[41] J. ROSENMBAUM, J. PEARL, J.R. PERELLA, J. HARRIS, Investment Banking, Wiley Publishing, Hoboken, New Jersey, 2020, pp. 55 e ss.
[42] C. CONTI, La gestione dei rischi finanziari nei fondi di private equity, in E&M, n. 2, Egea Editore, 2021.
[43] C. CONTI, La gestione dei rischi finanziari nei fondi di private equity, in E&M, n. 2, Egea Editore, 2021.
[44] Si consulti il contributo Risk in private equity prodotto da Montana Capital Partner e British Private Equity & Venture Capital Association, disponibile su https://www.bvca.co.uk/Portals/0/library/documents/Guide%20to%20Risk/Risk%20in%20Private%20Equity%20-%20Oct%202015.pdf